IL RISO DONO DEGLI DEI

PSICOANTROPOLOGIA SIMBOLICA

Annamaria Iacuele

Demetra
Il potere apotropaico del riso 
«Sebbene a malincuore, ineluttabilmente noi esseri umani dobbiamo sopportare quel che ci danno gli dei: infatti il giogo ci grava sul collo» Inno a Demetra , v. 215) 1

La vita non sempre sorride all’uomo, il quale deve continuamente confrontarsi con la sua impotenza e creaturalità, subendone, suo malgrado, le conseguenze.

A questo rapporto dell’umano con il divino fu particolarmente sensibile la cultura greca: è questo del resto il senso del famoso conosci te stesso, scritto sul frontone del tempio di Apollo.

Tuttavia le divinità sembra abbiano anche concesso agli uomini, e parrebbe solo agli uomini, un grande dono, un modo per stemperare il dolore della vita, per renderlo sopportabile e addirittura per trasformarlo in una ulteriore possibilità : cioè la capacità di scoprire improvvisamente un aspetto totalmente altro delle cose, una faccia prima nascosta, e di conseguenza di tramutare il pianto in riso.

Il riso è infatti un privilegio e una prerogativa divina e caratterizza proprio l’atteggiamento di distante superiorità degli dei di fronte alla pochezza e debolezza umana.

Secondo le più antiche tradizioni religiose, tale espressione di superiorità e di potenza è inizialmente legata ad un’idea di creazione o di distruzione. Ciò è particolarmente evidente per alcune divinità orientali, come il dio Sandas il cui riso “letale” sarebbe rimasto nella memoria degli uomini come “riso sardonico”.

Diverso il senso della risata degli dei greci: gli dei omerici ridono, ed il loro riso risuona nell’Olimpo, di un riso che è segno di piena esistenza, il riso di forme eterne. Presso i Greci infatti c’era inizialmente un rapporto di parentela tra uomini e dei e l’umanità è vista come l’infelice stirpe dei fratelli degli dei. Secondo le parole di Pindaro, «la stessa madre dà respiro ad entrambi, ma ci divide tutto il potere separato cosicché da una parte rimane il nulla, dall’altra, quale sede eternamente immobile, il cielo di bronzo».

Se tale divisione è tragica, proprio perché gli uomini sono ormai nulla di fronte agli dei, dall’altra tuttavia essi partecipano ancora allo splendore degli dèi: dèi ed uomini condividono insieme ad esempio in una sorta di sinousia, il luogo e il tempo della festa, che sono appunto un tempo ed un luogo altro, sottratto alla definizione umana.

Ed in questo senso agli uomini è concesso di ridere, durante la festa, quasi fossero dei. Gli dei stessi possono essere a loro volta oggetto di riso, quando anch’essi toccano il contatto tra finito ed infinito e il limite del loro dominio, quando cioè si avvicinano all’«umano, troppo umano».

Ride Zeus di fronte alla stupidità di Epimeteo (colui che riflette troppo tardi) e che nella sua imprudenza accetta come dono la donna, che si rivelerà foriera di guai per l’umanità. Ridono tutti gli dei della storia troppo umana dell’adulterio di Afrodite ed Ares, come dello stesso Efesto, sposo tradito di Afrodite, che per vendetta espone al ridicolo i furtivi amanti, colti in flagrante e caduti nella rete, scoprendoli e scoprendosi in una situazione imbarazzante, in cui il comico e l’osceno si toccano, e divenendo con ciò egli stesso ancor più ridicolo.

Ma la mitologia greca ci narra anche di una dea, Demetra, la madre delle messi e di tutto ciò che fiorisce e germina sulla terra, che afflitta dalla perdita della figlia Core, a causa del suo lutto, aveva tramutato le fertili terre coltivate in un deserto desolato: tuttavia gli scherzi riuscirono a riportare il riso sulle sue labbra e la primavera sulla terra.

«[Demetra] apportatrice di messi, dai magnifici doni,/ non volle sedersi sul trono risplendente,/ e ristette in silenzio, abbassando i begli occhi,/ finché l’operosa Iambe ebbe disposto per lei/ un solido sgabello, gettandovi sopra una candida pelle./ Là ella sedeva, e con le mani tendeva il velo sul volto;/ e per lungo tempo, tacita e piena di tristezza, stava immobile sul seggio,/ né ad alcuno rivolgeva parola o gesto,/ ma senza sorridere, e senza gustare cibi o bevande,/ sedeva, struggendosi per il rimpianto della figlia dalla vita sottile:/ finché con i suoi motteggi l’operosa Iambe,/ scherzando continuamente, indusse la dea veneranda/ a sorridere, a ridere e a rasserenare il suo cuore:/ Iambe che anche in seguito fu cara all’anima della dea.» Inno a Demetra , vv. 197-205).

Nella versione di Clemente Alessandrino ( Protrettico 2, 20-21), la dea Demetra, mentre vagava intorno ad Eleusi alla ricerca della figlia Core, si era seduta piangente e stremata accanto ad un pozzo e qui si imbatté con i nati dalla terra che abitavano quella contrada tra cui Trittolemo, il mandriano di buoi, e Baubò. Questa, per distoglierla dal suo dolore, improvvisamente mostra le parti più intime del suo corpo, abitualmente celate, provocando il sorriso della dea, e di conseguenza anche la terra ricominciò a sorridere e a produrre i suoi frutti preziosi per l’umanità.

«… Baubò, accogliendo Demetra come ospite, le offre il Ciceone. Ma questa rifiuta di prenderlo e non vuole bere, a causa del suo cordoglio. Baubò, assai contristata, come se fosse realmente disdegnata, mette a nudo i genitali e li esibisce alla dea. E Demetra si rallegra a questa vista, e finalmente accetta la bevanda, compiaciuta dello spettacolo 

Questa vicenda sarebbe ricordata e celebrata dal popolo greco nei sacri misteri eleusini, che concedevano ai mortali la possibilità di trovare «un rifugio alle sofferenze, un porto senza dolore» e agli iniziati di raggiungere la verità pura, attraverso una conoscenza intuitiva.

Il riso libera dalla colpa .

Il riso, strettamente connesso col pianto, può dunque essere visto come un antidoto al pianto. È la risposta della vita, con la sua forza istintuale, di cui l’osceno non è che una manifestazione, di fronte al dolore, al sentimento di colpa ad esso legato e al vissuto di minaccia annientante. Il riso è infatti anche una possibilità di difesa dal dolore, in quanto riesce a stornare e a stemperare l’ira di un ipotetico nemico e le sue nefaste conseguenze.

La mitologia greca conosce un dio, Ermes, il messaggero degli dei, e lo psicopompo, figura di mediatore tra l’umano e il divino, il mondo celeste e quello infero, che utilizza ampiamente il ridicolo quale strumento creatore ed eversivo: egli è il tipico trasformatore.

Tale personaggio assomiglia a quello che, in altre culture, è stato chiamato il trickster 2, una sorta di buffone divino, burlone spesso burlato, che unisce in sé gli opposti (femminile/ maschile, giovane/ vecchio ecc.).

L’elemento distintivo del trickster è la sua bricconeria grazie alla quale egli può cooperare alla creazione, distruggendo mostri, creando animali, introducendo differenti forme di tecnologia e di istituzioni sociali, quando non la morte. Ciò che lo caratterizza non sono le sue azioni ma la maniera bricconesca in cui le conduce e la sua capacità di uscire dalle situazioni critiche in cui rimane invischiato. Tuttavia la sua bricconeria non è mai interamente malvagia e al contrario può dar luogo ad alterazioni e trasformazioni che si rivelano benefiche per gli uomini.

Le sue vicende che appartengono ai tempi eterni del sogno hanno valore archetipico per il modo in cui sono affrontati i problemi della vita.

Il trickster rappresenta la forza vitale della natura che continuamente si rinnova e dunque assume quasi sempre la figura di un personaggio giovane, addirittura di un infante, che riesce a sottrarsi alla rigidità delle regole e alla voracità e distruttività del vecchio mondo. Il riso scaturisce dal suo essere giovane, nuovo, dal suo naturale contrapporsi all’irrigidimento del vecchio, dell’adulto e dalla sua carica eversiva che fa saltare ogni schema (“riso sardonico”!).

Il Briccone divino è ridicolo anche proprio per la sua natura di monstrum : ridicola è l’eccessività dei suoi desideri ed istinti, anche sessuali, dovuti alla sua dimensione titanica, espressa anche dalla sua precocità o dai suoi sovrabbondanti apparati fisiologici, la cui sacralità scaturisce dal chiaro simbolismo. I miti del trickster «con un humor, che sconfina pericolosamente nella tragedia, descrivono le ambiguità e contraddizioni in cui in fondo, si trova a vivere l’uomo: essere spirituale oppresso dai desideri della carne, dominato da un istinto…» 3.

Il dio greco Ermes, secondo Kerényi4, è una tipica figura di briccone divino, capace di ricorrere all’arma del ridicolo per placare con il riso l’ira degli dei, e perfino del possente Zeus, provocata dalle sue malefatte. Lo stesso Apollo, avendo scoperto il furto delle vacche a lui consacrate compiuto da Ermes, ancora infante, è inizialmente pronto a dar pieno corso alla sua ira ma è costretto, di fronte allo sconcertante e sfacciato comportamento dell’astuto fanciullo divino, a sorridere e ad assumere un atteggiamento meno severo.

« – Ma suvvia, se non vuoi dormire il tuo ultimo e supremo sonno, scendi dalla culla, amico della notte nera. Questo privilegio, senza dubbio avrai anche in futuro fra gli immortali: sarai chiamato per sempre il re dei furfanti.– Così disse Febo Apollo; e, preso il bambino, lo portava via. Ma proprio allora, di proposito, il forte uccisore di Argo, mentre era tenuto in braccio, emise un presagio, sfacciato complice del ventre, impudente messaggero. Subito dopo, con premura, starnutì: lo udiva Apollo, e dalle sue braccia lasciò cadere a terra il glorioso Ermes. Poi, per quanto avesse fretta di compiere il cammino, sedette di fronte lui, e, prendendosi gioco di Ermes, gli rivolse queste parole: – Coraggio, lattante, figlio di Zeus e di Maia! Io presto o tardi ritroverò le vacche dalla testa vigorosa, con questi presagi; ma sarai tu che mi indicherai la strada – » Inno a Ermes vv. 289-303).

La colpa, proprio perché impudentemente commessa e sotto gli occhi di tutti, si stempera e pare dissolversi. Tutto sfocia in un sorriso quasi complice. E persino lo stesso Zeus « rise di cuore vedendo il suo intrigante figliolo che si difendeva».

Come nota Aristotele «il ridicolo è infatti un errore e una bruttezza indolore e che non reca danno, proprio come la maschera comica è qualcosa di brutto e di stravolto senza sofferenza» (Aristotele, Poetica , 49 a, 35).

Il riso dunque perciò stesso è anche una possibilità di sottrarre l’uomo dall’angoscia della colpa. Con la comicità e con il riso che da essa scaturisce entriamo in una logica diversa, dirompente. Siamo fuori dalla concatenazione di causa ed effetto, e quindi di colpa e punizione.

Usciamo anche dalla logica della simmetria e dell’opposizione, da un contrasto che ci pone sullo stesso piano dell’avversario. Siamo imprendibili ed inafferrabili. Entriamo in un mondo totalmente altro, paradossale, in cui tutte le nostre strutture ben congegnate vengono vanificate dalla trovata buffonesca.

All’uomo che si trova di fronte alla tragicità di una colpa inevitabile in quanto connessa alla sua situazione umana, e alla sofferenza ad essa legata, stretto tra Scilla e Cariddi, nell’impossibilità di sottrarsi e nell’impossibilità di accettare, il riso apre una terza possibilità : tertium datur .

L’angoscia, (dal lt. angustia = strettoia), sparisce in quanto improvvisamente si riesce ad accedere ad una sorta di libertà spirituale che ci sottrae alla problematica tragica che aggredisce l’anima con l’impossibilità di soluzione. Cambia l’orizzonte delle nostre possibilità.

Siamo trasportati in una situazione surreale, potremmo dire tridimensionale, in quanto riusciamo a uscire dal piano orizzontale e ad accedere ad una terza dimensione, verticale. Gli opposti non si escludono, ma anzi ci troviamo proprio nel regno magico della coincidentia oppositorum, degli adunata, mondo in cui è finalmente possibile o forse ritorna ad essere possibile quanto è nella più profonda aspirazione dell’uomo, al di là delle limitazioni di una realtà che egli sente come angusta e provvisoria.

È il mondo in cui si esprime, attraverso l’immaginario, l’attesa di un’altra realtà ontologica, in cui l’impossibile è possibile.

Nel mondo ebraico Isacco, il figlio insperato che Dio dona a Sahra nella sua vecchiaia, già nel nome ( jiz-haq = Il Signore ride) porta il messaggio di una speranza di salvezza per l’uomo dovuta al fatto che il Signore può, ridendo, stravolgere quelle che all’uomo paiono le regole della natura. Anche il terribile Dio dell’Antico Testamento, può dunque ridere, giocare, essere assurdo.

La rivoluzione del comico e la fondazione di un nuovo ordine 

Nel mondo Greco, accanto al divino briccone Ermes, il complice dio della notte, sempre impunito, protettore dei ladri e dei furfanti, ma anche guida delle anime nel regno di Ade, l’Invisibile, esiste un’altra divinità che possiede tratti sconcertanti fino all’assurdo e tali da travolgere l’uomo in situazioni che possono passare dal pianto al riso.

È Dioniso, il dio degli opposti, (maschio-femmina, bambino/adulto, cacciatore e vittima), dio del fuori, che si sottrae con il suo corteo ad ogni ben strutturato ordinamento civile, mentre preferisce come suo habitat ciò che è átopon, come il mare o le radure boscose, o la montagna.

Le feste in onore di Dioniso, le grandi Dionisiache, erano celebrate con degli agoni teatrali in cui ogni drammaturgo presentava una tetralogia formata da una trilogia tragica ed un dramma satiresco. Dioniso è infatti anche il dio del teatro, della tragedia e della commedia. Ancora una volta vediamo come tragico e comico sono strettamente concatenati, proprio come il riso e il pianto, il mondo degli dei e degli eroi e il mondo degli uomini.

La carica creativa del riso, strettamente connessa alla possibilità di azzerare il mondo e rinnovarlo possiede anche una valenza innovativa e rivoluzionaria, con pericolosi risvolti sul piano dell’ordine sociale .

A Roma, le feste dei Saturnali e dei Baccanali ben presto furono proibite per il loro potenziale sovversivo. In esse infatti si celebrava il ritorno della felice età d’oro di Saturno e dunque venivano ad essere annullate per un giorno tutte le regole e gli ordinamenti civili: non esistevano più schiavi, né erano valide le altre regole e costrizioni.

Se ci soffermiamo sulla commedia antica Ateniese vediamo come questa soprattutto mirasse ad agire sull’immaginazione, attraverso invenzioni strane, non naturali, poetiche, fantastiche, creando personaggi allegorici (la Ricchezza, la Pace ecc.) cose inverosimili, stravaganze, chiamando in causa Dei e miracoli. Più che di azioni ( dramata ), si trattava di satire immaginose, fantasie satiriche drammatizzate, come ci fa notare Leopardi ( Zibaldone , II, p. 476). Infatti «non si può essere grandi se non pensando e operando contro ragione, e in quanto si pensa e opera contro ragione e avendo la forza di vincere la propria riflessione o lasciarla superare dall’entusiasmo, che sempre e in qualunque caso trova in essa un ostacolo, e un nemico mortale, e una virtù estinguitrice, e raffreddatrice» ( Zibaldone, II 4).

La commedia antica in Atene dunque provocava il riso agendo soprattutto sull’immaginazione: anche i personaggi storici venivano presentati in un’aura di caricatura assolutamente particolare, quasi deformati da uno specchio concavo.

Proprio il più grande poeta comico, Aristofane, nelle sue commedie ci trasporta continuamente in una dimensione surreale, fuori dal mondo degli uomini, in un mondo immaginario, senza luogo e senza tempo, in un átopon .

La sua fantasia, unita ad una prorompente e indomita vitalità raggiunge ogni luogo, terrestre, celeste, o infero, mostrandosi capace di smontare il mondo intero fin dalle fondamenta e di gettare nel calderone alchemico della commedia dèi, eroi, uomini, grandi ed umili, poeti e villani, vivi e morti.

Con Le Rane ci porta negli inferi, assieme a Dioniso travestito da Eracle, con tanto di clava e pelle di leone, il quale suscita la nostra ilarità proprio per le reazioni poco leonine e troppo evidentemente umane di fronte alle inquietanti figure dell’aldilà.

Con Gli Uccelli Aristofane ci fa volare tra cielo e terra: mette in scena e dà vita a un grande sogno collettivo, una città sospesa tra le nuvole, Nubicuculia, simile a un gigantesco accogliente nido, in cui si è accolti in una situazione morbida e calda, “come una pelliccia”.

Uno dei protagonisti delle opere di Aristofane è proprio il filosofo Socrate, collocato nelle Nuvole in un cesto sospeso per aria e lontano dai piccoli problemi del quotidiano che gli sono presentati da un genitore anziano tormentato dal solito figlio scialacquatore e perdigiorno.

Socrate del resto nel Simposio di Platone è definito come un átopon al di fuori delle regole e difficilmente collocabile, e viene ritratto, attraverso le parole di Alcibiade, come una figura insolita, paragonabile addirittura a un satiro o un sileno.

« Dico dunque che egli è similissimo a quei sileni esposti nelle botteghe degli scultori, che gli artisti raffigurano con zampogne e flauti in mano e che, aperti in due, mostrano nell’interno immagini di dei. E dico per di più che somiglia al satiro Marsia. E che tu sia nell’aspetto simile a quelli, neanche tu, Socrate, oseresti metterlo in dubbio. Sei un gran canzonatore o no? E un flautista, no? Anzi più meraviglioso di Marsia. […] sei di tanto superiore a lui che senza bisogno di strumenti, con semplici parole ottieni questo medesimo effetto. 

Sotto i discorsi di questo Marsia che è qui ho provato spesso l’impressione che non valesse la pena di vivere, vivendo come vivo […]E solo davanti a quest’uomo ho provato quel sentimento che nessuno sospetterebbe in me, il sentimento della vergogna. […] A tutti questi beni [bellezza, ricchezza] egli non dà nessun valore […] e passa tutta la vita a far dell’ironia e a scherzare alle spalle degli altri. Ma quando fa sul serio ed è aperto, non so se qualcuno ha visto i simulacri di dentro; ma io li ho visti una volta e mi parvero così divini e aurei e bellissimi e mirabili da dover fare senz’altro quel che Socrate comanda. […] anche i suoi discorsi sono in tutto simili ai Sileni che si aprono. 

Infatti, se uno volesse prestare orecchio ai discorsi di Socrate, gli parrebbero addirittura ridicoli a prima giunta; tali sono le parole e le frasi di cui si rivestono, pelle di satiro burlone: non discorre che d’asini da soma e di fabbri e di calzolai e di conciapelli, e par che dica sempre le stesse cose con le stesse parole, sicché qualunque persona ignorante e sciocca può ridere dei discorsi di lui. Ma chi per caso li veda aperti e vi si addentri, prima di tutto li troverà i soli discorsi che entro di sé abbiano una mente, e poi divinissimi e pieni di innumerevoli simulacri di virtù, tendenti ad altissimi fini, o, per dir meglio, tendenti a tutto quello a cui deve mirare chiunque voglia essere un uomo veramente a modo.» Simposio , 214-216)

I poeti di più grande forza comica, non si preoccupano mai della verisimiglianza, anzi si allontanano da una piatta trascrizione della realtà, fanno rapide piroette con le arguzie più acrobaticamente intelligenti, volano con lo spirito e cercano di proposito l’inaspettato e l’inverosimile, che generalmente suscitano il riso. La loro comicità scaturisce dalla vivacità dei personaggi messi in ridicolo i quali riescono più reali della realtà in quanto sono colti nella loro essenza, anche se attraverso una lente d’ingrandimento che ingigantendo i difetti li evidenzia.

Leopardi riteneva che le armi del ridicolo per la loro forza naturale, potessero giovare più di quelle della passione, dell’affetto, dell’immaginazione, dell’eloquenza e anche più di quelle del ragionamento. Nei suoi dialoghi egli, grande ammiratore del commediografo Plauto, ha cercato di fare divenire tema di commedia ciò che prima era stato ritenuto tema proprio della tragedia, cioè «i vizi dei grandi, i principi fondamentali delle calamità e della miseria umana, gli assurdi della politica, le sconvenienze appartenenti alla morale universale, e alla filosofia, l’andamento e lo spirito generale del secolo, la somma delle cose, della società, della civiltà presente, le disgrazie e le rivoluzioni e le condizioni del mondo, i vizi e le infamie non degli uomini ma dell’uomo, lo stato delle nazioni » (Leopardi, Zibaldone , I, p. 993).

Vogliamo ancora una volta sottolineare che la commedia e la satira se hanno per oggetto il brutto e il vile che appartengono largamente all’umano, troppo umano, sanno tuttavia guardarlo con una partecipazione distaccata, un respiro più ampio che allontana il pianto e consente il riso, e pongono in tal modo le condizioni per una possibile trasformazione ( ridendo castigat mores ).

Nei momenti di crisi epocali, troviamo quasi sempre grandi figure poetiche che hanno affidato al riso o al sorriso il loro messaggio nuovo e rivoluzionario.

Così, dopo il difficile e contrastato periodo medioevale, proprio la commedia con i suoi altissimi poeti di grande ingegno e finezza, sostituirà alle drammatiche tinte apocalittiche una nuova leggerezza, aperta al riso e foriera di speranze in un nuovo mondo.

Commedia è chiamata da Dante la sua più alta opera (a cui i posteri concessero l’attributo Divina ), di cui è egli stesso protagonista in quanto rappresentante di un uomo che facendo il cammino infernale tra i vizi e le passioni umane, arriva infine a «salire alle stelle» e «all’amor che move il sole e l’altre stelle».

Non meno rivoluzionaria la vivace coloritura comica di Boccaccio, grande antesignano dell’umanesimo, che con il riso sollecitato dalle cento novelle del suo Decamerone pone un balsamo sulle ferite materiali e spirituali inferte dalla peste in un triste momento storico e apre le porte di una nuova epoca.

La dissoluzione del vecchio mondo è evidenziata ancora in Italia da altre figure geniali quali il Berni, il Pulci o il Folengo, attraverso il riso suscitato dagli effetti comici dovuti ad altisonanti figure e situazioni dell’epopea classica e cavalleresca che vengono a trovarsi in un contesto senza più referenti, in una situazione « átopon », e che con burlesca vivacità affermano un nuovo mondo.

Parimenti in Francia si staglia la gigantesca figura di Rabelais e dei giganteschi protagonisti delle sue opere, grandiose affermazioni della vita stessa che si impone con le proprie leggi e prorompe con la forza di una robusta risata. Senza alcuna preoccupazione di verosimiglianza e con un’immaginazione esuberante, prorompente, sfrenata, ridanciana, rompe con ogni formalismo irrigidito e fa incontrare giganti, maghi, fate, animali mostruosi, come in un sogno, in un universo fantastico, libero da ossessivi timori e in cui, come nel famoso episodio delle «parole sgelate», possono sciogliersi l’affanno e il dolore rimasti inascoltati e cristallizzati, a guisa di chicchi di grandine.

Il riso, come il pianto, è sentito da un altro grande poeta, Baudelaire5, come profondamente umano, indice della contraddizione e della duplice possibilità dell’uomo: grandezza infinita rispetto alla pura animalità e infinita miseria rispetto all’Essere assoluto di cui l’uomo possiede la concezione. Segno di una grande miseria, di una degradazione fisica e morale, in quanto intimamente legato ad una caduta antica, ma contemporaneamente segno del riscatto, perché se con le lacrime l’uomo lava i dolori dell’uomo, con il riso addolcisce il suo cuore. Proprio dall’urto perpetuo di questi due infinite possibilità dell’umano si svilupperebbe il riso.

Perché ci sia il riso, cioè emanazione, esplosione, di comico è sempre comunque necessario che l’uomo abbia acquisito la forza di sdoppiarsi, di assistere come spettatore disinteressato allo svolgersi della sua vita, ridere della sua caduta e essere spettatore di se stesso. Da qui la grandezza poietica ed artistica del fenomeno comico che, come tutti i fenomeni artistici, è segno di una grande potenzialità dell’essere umano: quella di essere sé e l’altro, quella di trascendersi.

Per Baudelaire esiste ancora un’altra possibilità di riso: un riso creativo, artistico che ha in se qualcosa di profondo e di primitivo che si avvicina alla vita innocente e alla gioia assoluta, appannaggio degli artisti superiori che hanno in se stessi la ricettività sufficiente per ogni idea assoluta. Simile al sorriso o al riso dei bimbi e allo sbocciare di un fiore: manifesta la gioia di ricevere, di respirare, di aprirsi, di contemplare, di vivere, di crescere, è la gioia di una pianta, è un vero dono degli dei.

Questo riso ci riporta, secondo Nietzsche, nel mondo dionisiaco, il regno della danza, dell’ebbrezza e del riso divino, immergendosi nel quale l’uomo, come Zaratustra che «ride la verità », può vincere il destino di morte, divenire simile al dio e scoprire un nuovo senso della sofferenza e della morte.

Annamaria Iacuele

IL RISO DONO DEGLI DEI
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