Oh dolce Vita!
Al tuo supremo canto ogni tua cosa è fisa,
e chi egro riposa, dal suo guancial s’accosta alla rosa
che tu protendi per non vederlo affranto.
Querulo l’infermo al fiore vi si accosta,
le nari a dilatar e il cor si fa invitto;
or come vischio s’aggrappa, lo busto è ritto,
sa ben cosa prova chi avea perso la posta.
Mestizia si ottunde mentre lento riprende
il suo color vermiglio;
or salvo dalla balza, un satrapo è
che nulla al cielo rende.
Folle come chi al suo ben non reca ausilio,
come Orlando a scempiar li suoi nemici incalza,
nel novello vigor,
si sprezza del periglio.
Hai tu rimpianti, anima dolorosa,
che allo sfidar t’appresti anche la morte?
Io son colei che ti ha salvato, son la rosa
che sprezzante getti, intrusa di tua sorte.
Ma sorda a chi non discerne il suo pulsar ritmato,
Vita s’arresta senz’avvisar alcuno;
spietata si trasforma in ciò che tocca ognuno,
nominar altro non posso gran scellerato!
Non ei s’accosta piano, né protende la man,
né prega e non d’aiuto implora
or che rosa non tende
mentre sorte minaccia.
Inutile sì, ma non s’arrende
al dolor che devasta,
alla suprema ora,
mentre un’ombra spettral
ghignando s’affaccia.