L’ULTIMO NEANDERTHAL


PROEMIO

Ne l’anno de la morte del Signore

de la cristianità inizia l’era;

risorto per salvezza il Salvatore.

Nel dar speranza nova di lumera,

vi soffocò d’orrore e di spavento,

e su la croce ‘l giorno volse a sera.

Estatico di fede ‘l suo tormento,

d’intera Umanità fece missione,

lasciando in terra il suo comandamento.

Nel giorno de l’Avvento di Passione,

risorse ‘l terzo giorno di sua morte,

per celebrar l’evento in comunione.

Allor fece premura di sua corte,

d’apostolato suo spargere ‘l seme,

e Chiese a Lui pregare n’ebbe in sorte.

Già sento, Voi direte tutt’insieme,

che la Passion del Cristo è cosa nota,

e a narrarla ancor non si conviene.

Per ciò, nel seguitar Vi giunga ignota

la trama de li eventi che Vi narro,

poi ché non v’è scrittura più remota.

Così com’è che l’om immolò il farro,

per ingraziar lo spirto contadino;

sì tal ciò che rivelo vuol bizzarro.

Ma col Maestro, il viaggio nel divino,

vi svelerò nel tempo a Lui propizio,

col pie’ a ritroso intriso al Suo destino…

Avvien così che l’omo al suo solstizio,

perenne lotti in sua sopravvivenza,

ne lo scoprir lo mondo da novizio.

Nel breve volger di sua discendenza

s’ingegna, e al meglio attrezza sue risorse,

fin ché chiamar lo possa: homo sapienza.

Presago ogni sua mossa messa in forse

dal fato e da l’asprezza del periglio;

vagò nel buio, fino a che s’accorse,

del lento progredir di padre in figlio…

LA FORZA DEL FUOCO

Bruciava nel fragore madre selva,

illuminando il cielo ne la notte,

tra ‘l crepitar d’arbusti e urlar di belva.

Sospinto da lo vento a piè di grotte,

alacre il denso fumo vi spargea

un arrostito odor di carni cotte.

Nel dilatar le nari si sporgea

eretta di potenza una figura,

scrutando ‘l ciel che rosso si tingea.

Inquieto, Gruhn discese da l’altura

seguito d’altri due di suoi guerrieri,

e a l’albeggiar varcaron la radura…

fino a le porte in luce de’ sentieri

ch’alitando a lor verso nube irraggia,

rendeano vani i loro desideri.

Costì l’ardor di selva aspra e selvaggia,

in fuga ricacciò li omi robusti…

ché ‘l foco in vece lor già vi foraggia.

Quivi fu Gruhn raccoglier tra li arbusti

un toppo che d’un lato divampava:

residuo a lo chiaror de l’alti fusti.

Lo mostro senza pièta divorava

un vasto territorio di lor caccia;

ch’un altro a molte Lune vi distava.

Ne lo scampar de lo fulgor minaccia,

Gruhn condusse i suoi a la dimora

con fiaccola a schiarir l’arcigna faccia.

Ne l’ampia grotta in luce da l’aurora,

Gruhn vi rientrò con l’animo fiero,

ché ‘l ceppo in fiamma riluceva ancora.

Col piglio de l’audace condottiero,

nel rotear la torcia oltre la testa

come ‘l brandir la clava di guerriero,

Gruhn svolse a la tribù fattasi desta,

che quell’immane luce soffocante

vietava star d’intorno a la foresta,

per lo calor e ‘l fumo penetrante

che l’avanzar a tutti v’impediva;

da essa ricacciandoli distante.

E prova ne la man ch’andar brandiva,

la vampa avvicinò ad un fratello,

che lesto ad arretrare ‘l colpo schiva.

Allor che ‘n luce vide un vispistrello,

Gruhn vi dirottò quella lingua ardente,

e questi stramazzò col suo mantello.

Nel farsi lustro in sfoggio a la sua gente,                          

Gruhn offerse a Uthur l’alata preda,

ma questa s’involò rapidamente.

Or prima ch’essa ancora se n’avveda,

o oda ‘l sibilare a le sue spalle;

l’infida arma invola, e ‘l gesto seda

del suo librarsi lesta in volo a valle;

sì far che tonfi al suol colpita a morte…

e sopr’ad essa ‘l ceppo a far da scialle.

E ancor levossi odor di carni torte,

al pari quello ancor che v’alitava

da l’afro messaggero a triste sorte

di bestie che lo mostro andar bruciava;

che pria d’allora alcuno avea veduto

di suoi poter che ‘n forze ora svelava.

Nel cogliere con man di sprovveduto

la face ancor ch’ardea minacciosa,

lo vecchio Uthur lanciò urlo d’aiuto…

“Uook!… Uook!…”, gridava sanza posa

a quel dolor del corpo suo in arsura

che fin li s’apprestava spaventosa!

Ma li Ulhur tutti, ne l’ugual misura,

distavano lontan da la sua pira,

succubi e ‘nterdetti da la paura.

Si compié sì a cerchiar mortale spira,

e Uthur fuor di spelonca cercò scampo,

ma lici stramazzò, svotà di spira.

D’un tratto ‘l ciel buiò, e accese un lampo,

seguìto a lo fragor d’alto tonale,

più forte di mammut che ‘n terra, stampo

risuona da lor branco colossale,

al caricar compatto ed imponente

quel solo esser vivente che l’assale.

E cadde ‘nfine pluvio dirompente,

che ‘l greto de li Ulhur già straripava,

sino al crear da guazzi un sol torrente.

Lo mostro sì sconfitto si ritrava

con gran sorpresa de li Ulhur festanti,

tant’è che l’un con l’altro s’allacciava.

Da terre fredde, a queste confinanti

de l’Africa del nord settentrionale,

nel fitto di foreste equidistanti,

con flora in abbondanza e d’animale,

veniano li Ulhur dal gran passato…

pria che ‘l ciel scagliasse ‘l proprio strale.

E Uthur, lo vecchio capo, ivi bruciato;

di fiori ricoperto, e d’ocra rossa;

fu tosto a piè di grotta sotterrato

con altre sue chincaglie fatte d’ossa,

e posto in posa estrema a far ritratto

col capo a le ginocchia che lo ‘nfossa.

D’armenti suoi v’è poscia dato atto,

aver anch’essi degna sepoltura,

che ‘l figlio Gruhn depose con gran tatto.

Ahi! Gruhn, novello capo; è vita dura

lasciar con la tua gente quelle lande,

e ‘l traversar distese di radura,

or che più di sue fronde non v’espande…

t’aspettan le distese tropicali,

e la savana arsuta, assai più grande

in quelle zone subequatoriali;

u’ forse, altre tribù fan scorribande.

L’AGGUATO NELLA PALUDE

Nel traversar la lor foresta spoglia,

li Ulhur, tra centinaia di carcasse

e rami brulli orfani di foglia:

con loro pietre aguzze, carni grasse

tagliaron di provvista pel cammino,

e rami frondosi ché v’adattasse

da tetto la capanna al sol declino;

mentre Gruhn tutto cupo riflettea

su cosa fosse in serbo dal destino…

Già molto innanzi a lor li precedea

lo passo del leon, che guato ad aggio,

su l’orme di sue prede si movea.

Li Ulhur sapevan bene fosse saggio,

restare ‘n retrovia ai predatori,

a volta lor seguendone ‘l passaggio.

Gitar  verso li ‘gnoti territori,

or che li frutti terra più non dava,

li costringea a farsi cacciatori.

Ma l’animo di Gruhn non disperava:

di scorte alimentar fatte risorse,

per molto tempo elli li sfamava.

Parmenti lor destin non messo in forse

sul vincere la sete, oppure ‘l fato,

ché d’acqua e di speranza pien lor borse

l’avriano di certo assicurato,

fin quando a fissar zagala su l’uro,

l’ambito pasto fosse delibato.

Con li più forti ‘n testa a fare muro,

in quello status quo si proseguiva,

di terra a cercar messe pel futuro.

Da scalpitio lontano s’arguiva

lo galoppar di mandria d’emioni,

ch’a loro innanzi lesta refluiva.

Decisi a trascurar quelle regioni

de l’Africa del nord: zona pluviale,

al provvido mutar de le stagioni,

e a spingersi più a sud: zona fluviale,

vi sussisteva duplice ragione,

e non per quel sol fatto accidentale.

Tra queste, v’era ‘ndubbia la cagione

che ‘l cibo fosse certo il più importante,

ma senz’armi non v’era libagione.

Tal ch’essa era l’industria portante,

ed elli ‘n questo senso eran retrivi,

sì che necessitava averne tante;

ma più di resistenti ancora, ch’ivi

a le lor terre non v’era più dove,

e molti tra di lor li vedea privi.

Quinci a la steppa, lo ‘naridir li rove,

e quiddità s’impone qui a distante,

tra ‘l rutilar che ‘l curro ver’ li move

al branco di saighe brucar le piante

piccole e salate, ridosso al pruno,

privo de lo cibar lussureggiante.

Poscia calò lo giorno il manto bruno,

ch’un gran baglior di stelle illuminava;

ma in quello mondo, certo era neuno…

Da due lune ‘l folto gruppo avanzava,

campando tenda al tramontar del sole,

là dove un terrapien fortificava.

Quel viaggio unì tribù parmenti sole,

con li viri le femmine e l’infanti,

primeri a lo scambiar fra lor la prole.

Sì che, ne lo sostar l’un l’altro avanti,

gustando quelle carni arroventate:

sorprese l’assuefarsi ‘n tutti quanti,

tra genti giorno e notte separate,

ché nel comunicar eran distanti,

ma tutte a un solo scopo eran mirate.

Nel dì a seguir si pinser così avanti,

che più ‘l sudor collava su la pelle,

e ‘l mordere di ditteri giganti,

ch’ad essi omo o donna n’era ‘mbelle

 al punto, d’applicarsi d’ogne parte

l’ocra rossa in iscudo a tal procelle.

Ond’essi al limitar che ‘l suol comparte

tra ‘l verdeggiar di fronde e la paluda,

 lo popol de li Ulhur si fé diparte.

La mossa s’accordò per far ch’eluda,

formando un movimento sì a tenaglia:

la ‘nsidia che si cela e poi dischiuda.

Così ch’ a destra e a manca a la boscaglia,

l’intero accerchiamento fu espletato,

serrate in mano l’ascia e la zagaglia.

Chi troppo viro, infante, o pur malato,

con donne tutte al fora de’ due gruppi,

a randa di palude fu accampato.

E presi a rotolar nel fango ‘nzuppi,

parmenti ‘mpresso il corpo su la sabbia,

di quella protezion furon viluppi.

Li vecchi esclusi ascosero la rabbia,

e il giovane vie più d’ardor fremeva:

piantone al campo come lupo in gabbia.

Tra li guerrieri Ulhur ben si sapeva,

scortando nette orme sul terreno,

d’ognuna a quale belva apparteneva.

Ma ‘l perlustrar di tracce venne meno,

da che lor passi uno strapiombo arresta,

u’ alto echeggia un rombo a loro alieno.

E ad allungar sporgendo in giù la testa,

chinossi l’Ulhur tutti, che sott’essi

massa d’acqua tuffava da sua cresta.

Sì che, l’occhi a svagar su tal recessi,

e l’orecchi da quel fragor cupìti:

li ‘ncolsero in disgrazia a loro stessi.

Per ciò a le spalle venìro colpiti

da pietre grosse quanto il loro pugno,

che strage fenno fra morti e feriti.

Or mossi a lo scoperto a duro grugno,

con lance a lunga punta e l’ascia in mano;

un’orda li attaccò su l’orlo lugno

che ‘l baratro comparte a l’altopiano;

dove declina e scoscende la gola,

profonda come l’urlo disumano

ch’alto sale di chi da basso invola…

e a fronte l’orda, l’orrido a le spalle,

Gruhn e suo’ fidi aveano cosa sola…

Quinci al campo, li Ulhur a bordo valle,

mirando il sol caggiar dietro le foglie

ne la savana arborea che ‘ngialle;

chierossi perché mai a le lor soglie

ancor non v’apparissero i guerrieri;

temendo l’inghiottir d’umane spoglie.

E al seguitar sì cupo d’ i pensieri,

moriva ogne speranza al ciel ch’imbruna,

calando l’ombra lungi tra i sentieri.

Lassù, la falce argentea de la Luna

specchiavasi lumando l’acque fuse

a forma sua sì tal barcana duna.

E tra codesto dosso si diffuse

al vento l’afflizion che i cuor percuote;

sì speme a quel ritorno si rincruse.

Ma tu, caro lettor, si che io puote;

se avrai piacer dar corso a la lettura:

dirotti che la tempra non si scuote

di quella gente primitiva e dura,

avvezza aver la morte per compagna;

tal ché, in quella notte fredda e scura

ove la Luna ne le pozze abbagna…

Due leoni e appresso sei leonesse

moveansi col passo lor felpato,

nascoste ad aspettar che vi bevesse

la preda per poterle ordire agguato;

e al campo de li Ulhur l’orda si mosse

come i leon nel sangue abbeverato.

Lasciando sul terren che non l’infosse,

d’anziani le lor lasse e lusse ossa;

s’astennero al trattar con tal percosse,

traendovi con sé come riscossa,

le donne e li più giovani tra loro;

ché gli altri ormai la terra fan la rossa.

E al rimestar tra i passi sul pianoro,

su quell’atra sventura che li ‘ncolse;

al cielo un gracidar levossi ‘n coro

arretro a le lor spalle fatte bolse,

di bàtraci di ranatre satolle,

ch’a l’incupir li prigionier distolse.

Ormai lontani, terra non v’è molle,

e l’orda andar move speditamente

sì ché la nera selva andar l’ingolle

come ‘l sauro che ‘nghiotte e poi si pente.

Destavasi la savana arborata

sotto le foglie prosciugà de’ butti,

da la grande palla rossa infocata.

Ma ‘l novo giorno nacque tra gran lutti,

che ‘l popol de li Ulhur portossi addosso

come felci sui tronchi sanza frutti.

Potrà sembrar sì fatto un paradosso

che quella gente forte ma retriva

sopravvivesse sì ridotta a l’osso.

Da molti giorni ormai non si nutriva,

e sitibonda ormai, non la placava

quell’inghiottir continuo di saliva.

La madre per lo figlio disperava,

ma l’orda non volea sentir ragioni;

sì ché chi al suol crollasse vi restava.

Le femmine eran giovani occasioni,

l’ambito premio, il sommo del bottino:

lo più squisito de li lor bocconi.

Li Zanj aveano avuto dal destino,

lo cranio e ‘l corpo in forma più allungata

di quelli de li Ulhur ch’avean vicino…

L’arcata occipital meno marcata,

li zigomi non eran sì sporgenti,

e aveano più sciolta la parlata.

A l’imboscata, in gruppo eran di venti,

e li guerrieri Ulhur metà di cento,

ma sanza lor astuzie e lor armenti.

Fu al caldo soffio andar di contro il vento,

che l’orda de li Zanj a la foresta,

fiutò ne l’avanzare a passo lento,

quello stuolo d’Ulhur che non s’arresta…

sospinti da la fame e da la sete,

ignari d’una fine sì funesta…

Li Zanj li ‘nvischiarono a lor rete

per far scattar l’agguato sì opportuno,

con urto in forza pari a l’uro ariete.

Da ché d’ognor vi ‘gnora il loco alcuno,

dove ‘l propagginar sentiero oscura

nel declinar l’abisso al passo pruno,

che de li Zanj usbergo l’assicura:

essi altra scelta non aveano in serbo,

già ché li Ulhur trovossi su l’altura.

Dai loro propulsori, con gran nerbo

lance e pietre scagliaron d’improvviso;

tant’é ch’andaron stoscio sanza verbo.

E nel filtrar dal bosco tinto ‘l viso,

di contro a quei ch’ancor v’erano in piedi;

con zagale a lor punta ‘l sangue intriso,

di ‘ngiù a la gola alta trecento piedi

tuffaron molli i corpi sanza vita.

NELLA GOLA DEGLI ZANI

Ora li Zanj, urlando a far di vanto

al che discesi ‘n gola dal sentiero,

passaron sotto a lo scroscioso manto…

Quella cascata d’acqua – par non vero!

era ‘l portale immenso a la spelonca…

del regno oscuro che dalli acquartiero.

L’abbeverar continuo quella conca

formava a fondo valle stretto fiume,

e fauna d’abitar non v’era monca.

Ma solo i predator ch’avean le piume

poteano calarsi ne la gola,

ché ad altri ‘l dumo vieta ‘l passo implume.

Quel corso d’acqua avanti scorre e scola

strignendosi man mano a mo’ d’imbuto,

e lungi andar vi getta la sua stola

al fiume allor più grande mai veduto,

portando in dote mille e più detriti:

di bacche, steli e foglie a ciel perduto,

di arbusti e di animali ‘mputriditi,

che torti a la lor terra da la piena,

nel loro estremo viaggio fùor uniti.

Raro il sottrarsi ai morsi de la iena

se non a la stagione de le piogge,

or l’acqua le carogne avanti mena,

e al trascinar, contigue l’altre rogge

s’unirono a la prima a far convegno,

ciascuna co’ residui ‘n varie fogge.

Col passo andar lì ‘n dentro al vasto regno,

che sì ampio l’Ulhur l’avea mai visto,

levossi ‘l curro intorno a tanto ingegno:

su quelle rocce d’argilloso scisto

pittografate col composto bolo,

bellivan de’ color de l’imprevisto

ogne tramezza de lo sottosuolo,

per quelle multiforme variegate

di bufali, gazzelle, uccelli ‘n volo,

di bisonti, e di cervi a le ‘ncornate;

d’emioni, saighe, caprioli e tori

compatti a lo brucar rocce muschiate.

Lo scuro spense quei capolavori,

che l’occhi ancor li splende e li traluce,

e ‘l popol de li Zanj mosse fori.

Nel farsi ‘ncontro a l’orda ‘l loro duce,

con stuolo di sue genti cinge e abbica

li esausti prigionier con piglio truce.

E a lo spezzar d’un colpo la fatica

nel frantumargli ‘l cranio con la clava:

Ethan fé scempio in men che non si dica

d’una generazion forzata in schiava,

lasciando sol le donne in vigil pace

a le femmine lor che ‘l cor crucciava.

Ma colto in quel contegno un far mordace,

Ethan si spazientì, e sanza indugio

a dimostrar di prender ciò che piace,

portossi la più bella al suo rifugio

nel trascinarla in terra pei capelli,

per far di Ulah  ‘l suo fedel segugio.

E ‘l cenno a far d’invito ai suoi fratelli,

anch’essi si gettaron su le prede,

come branchi di lupi tra li agnelli.

Chetà li sensi, Ethan le dié in mercede

una bianca collana di conchiglie

per propiziar l’avvento d’un erede.

Ben ché padre di molti figli e figlie,

di Ulah era talmente già ‘nvaghito

da meditar comporre due famiglie.

Ella era fiorente tre volte ‘l dito

d’una intera mano; ed ei, testé giunto

che ‘l conto il corpo loffio avea vizzito.

Giunse poi Ethan fattosi compunto

per quella spedizione a sparger sangue,

ché ai morti suoi provava disappunto.

Atal, suo figlio, rivelò esangue

un de’ guerrieri Ulhur al suolo steso;

di poi che ‘l Sol, l’ombre protese… illangue.

Da tal possanza Ethan fu sì sorpreso,

ch’a ei convulsamente li chiedeva

se alcuno a dileguar vi fosse illeso.

Atal rispose a ciò, che non sapeva,

ma ipotizzar vi fosse uno scampato:

“era a guardar la morte che l’alleva!”

Dal vecchio padre tòsto minacciato

per l’incuranza ritenuta grave;

con fèrula violenta fu sferzato.

Poi nel riunire l’orda fé conclave,

perché chiarir volea quella questione,

e in preda a l’ira li squarciò le clave.

Quindi al finir de lo tener concione,

li ammonì tutti a ritornar sui passi

a l’indomani… ditta sua ragione.

Poscia a l’ampia grotta dai piatti massi,

riunita selvaggina di lor caccia,

le donne v’approntaron cibi grassi.

Tra due forcelle volte faccia a faccia,

le carni a lo schidione eran trafitte,

e i secchi rami lì, gettati a braccia.

Sui sassi conformati come bitte,

li Zanj preser posto per lo pasto,

ché fame dispensava già sue fitte.

Al ché ‘l sottil schidione cede al basto,

e zagala al suo posto fà rimpiazzo,

in modo a riparare al brusco guasto.

Or tutti schierandosi a far codazzo

d’intorno al cuciniere incaricato;

fremevano dal cibo aver sollazzo.

E preso il punteruolo progettato

per ricrear  con stile arguto e rozzo

lo foco che l’avrebbe generato,

lo fricò a l’interno del foro abbozzo

d’un legno nel pozzetto predisposto,

con sterpi secchi e fronde ‘n fascio mozzo.

Sì ché da quel groviglio – tal composto

pressato ne l’attrito de’ due legni,

fugò ben presto il foco per l’arrosto.

Le donne Uluhr con timorosi segni

chiedevan d’aver parte a quello pasto,

fidando d’uno sguardo che le degni.

Di poi, le braccia in sù, gesticolando

come ‘l foco le avesse avviluppate,

si volsero a li Zanj strepitando.

Ma da essi testé rassicurate,

e richiamate tosto innanzi al foco,

da carne in lembi furono chetate.

Pria che zagala dal calore ‘n loco

si piegasse, e cadesse su la brace

che l’antro riluceva al lume fioco:

un’altra v’infilzò con far pugnace

lo deputato scalco, e indi poscia

la lésina supplì a l’occhio abbace.

Quand’ei al pungolar la sentì moscia

al punto tal da dirsi ch’era cotta,

fu ‘l primo Ethan a grufolar la coscia.

Per questa loro dieta ininterrotta,

li Zanj risalendo quella foce,

partivan settimanalmente in lotta.

Ora però, mentre un cinghial si coce;

solo ‘l rumor de le mascelle mosse

s’udiva subentrare a nulla voce.

Sì ché di poi, le scorte ‘l cuoco cosse:

al foco affumicate e tosto toste,

venivano stipate in atte fosse.

Quia la sugna si fea le sue croste,

ne la grotta dove roccia cristalle

idrato, conservando carni arroste.

Bevendo al distillar di alcune falle,

scopriron che le carni ‘n quelle rocce

sapìvano vie più s’affosse installe.

Così che al far covar come da chiocce,

la carne avanza non s’imputridia;

di modo aver più gusto a le bisbocce.

Ulah s’accostò a lo foco, e già sentìa,

or che finito avea il suo digiuno,

un vel di turbamento che salìa…

e la notte calò sul popol bruno.

LA CACCIA ALL’UOMO

Per li Zanj, quella ricognizione

su le tracce de’ nemici scampati,

se tal si vuol Ethan abbia ragione

tra baobab e sicomori ben piantati;

avea un po’ ‘l sapore de la festa

nel proseguir tra la vegetazione.

Ma lampeggiò… tuonò… andò in tempesta,

e tracce l’acquazzon tutte cancella;

sì ché più non servìa calar la testa…

Lasciato il varco pruno in sentinella

che v’ascondea per gola stretto passo,

due Zanj di veletta fean favella.

E al loro dire e far svogliato e lasso,

con forza sovrumana e sì bestiale

due lance li ‘nfissaron per lo casso.

Era Gruhn!… nel portar colpo ferale

con altro ch’oltre a lui eran di sei,

furiosi e cupi come ‘l temporale.

E or, riaperto ‘l varco, in verso a quei

s’abbicaron calando lo sentiero,

circospettosi e guati su li rei.

In seggio i due doriferi, – par vero

poggiati ‘n schiena l’uno accanto a l’altro

pareano vivi, che morti davvero!

Così, sanza sospetti a quel far scaltro,

nel caso chi a lontano li scrutasse;

potea stimar ch’eran vivi sanz’altro!

Gruhn lo scempio de le spoglie ammasse

di decine d’Ulhur sul rogo arse,

credea che ‘l cor dal petto li scoppiasse.

Le sue genti dal campo eran scomparse,

e a la vista di quei miseri resti;

temette fosse, tra le ammasse e sparse

mèsse di corpi cotti, sanza vesti

ne fossa: Ulah… sposa sottomessa

ad Ethan,  ma s’avea d’esser lesti…

L’astuta mossa d’agir di rimessa

al grosso de li Zanj che li bracca,

era per Gruhn ben più d’una promessa.

Ma ‘l tempo che s’invola e tutto tacca,

chiedeva esser veloci e risoluti,

ché l’incupir le menti ‘l corpo fiacca.

E pria che ritornassero li aiuti,

ché silente l’istante era propizio:

guati entraron ne li antri sconosciuti…

Quinci, sopra di quello precipizio

dov’è propaggine di fronde ricca,

per li Zanj, d’Ulhur non v’era indizio.

Allora Atal si volle fare picca

di prender passo ver’ al loro campo,

e urlando, mostrò a li suoi sua picca.

Solùto a li scampati non dar scampo;

quivi giunto, trovò li resti scerpi

de le tende, ed ebbe d’ira un vampo.

Un’intrecciar cadùceo di serpi

tra le silicee doline spoglie,

era ‘l solo abitar tra quelle sterpi.

Ma tutto a un tratto, ‘l curro d’Atal coglie

quel bianco avorio a scheletrar capanna,

ch’avea in coperta: pelli, sterco e foglie.

Allor la scoperchiò… e parve zanna

su zanna, che mai ne vide sì lunge;

al punto da sentir che ‘l fiato affanna…

“Da dove mai” – chiedevasi – “vi giunge

sì tale mastodontica struttura

che l’una a l’altra incastra e si congiunge?”

Atal sentia la smania e la premura

de lo scoprir la loro provenienza,

ma al tempo stesso preda a la paura.

E volse al comparar de l’apparenza

chiara tra li Ulhur di peli e capelli,

con quella de le zanne in tal tendenza.

Sì ché, nel far fagotto in grosse pelli

di quelle aguzze ossa, formarono

due schiere ripartendosi ‘n drappelli.

Così i due gruppi si separarono:

Atal coi suoi, avanti al suol ch’insabbia;

li altri affardellati ripiegarono

a la gola, temendone la rabbia

d’Ethan, che già l’imago a lor parea

nel deturpar de la sua ‘nfiata labbia…

Ma ‘l compito più ingrato Atal l’avea,

ché come figlio, orgoglio al cor lo feggia,

considerando quanto ne tenea.

E per cavar dal petto tale scheggia,

a quella morta gòra vi s’addusse,

dov’acqua or era colma sì tal reggia.

Sperandovi trovar notizie musse

de le loro tracce; quivi discerse

certe chiare impronte, e chi le produsse.

Poscia al seguir le orme pria disperse,

ch’or potea dir: “Le riconosco!”;

dal guazzo a fitta selva si converse.

E rivolto a mirar di sbieco e fosco

li suoi compagni, ritto in albagìa…

ei parve lor come sileno al bosco.

L’acqua intanto ne la sua emorragìa,

stipava ‘l grande fiume sanza tregua,

e rigogliava terra di magia…

Germogliavan sì tutte a stessa stregua:

sagittarie, igròfile, silène,

ed altre come epìfita s’adegua;

sì felce, l’orchidea e lo lichene,

e altre sì florido tra l’intemperie

l’igname, col lentisco e le dracène…

Or volto a dipanar questioni serie,

Atal s’arrovellava sui quesiti

che ‘l senno suo li partoriva in serie.

E sovra a questi, ‘l cruccio pei fuggiti,

l’avea d’esser preso in prima vista,

chiedendosi u’ mai v’eran finiti.

In ultimo, per completar la lista:

v’erano le pelli fulve e muschiate

che ricovrian capanne in taglia mista.

E sommando a queste: le già citate

zanne, la muscolatura imponente,

l’arcate occipitali assai marcate,

la pelle chiara, al tutto sì ‘ncoerente;

sancì che ‘l modo avea per far chiarezza:

sperar trovarne almeno uno vivente.

D’alcune cose sì, v’era certezza

d’aver da le lor donne un resoconto,

ma sol l’avrebbe avuto in sottigliezza.

Poi che, da tener v’era in giusto conto

lo fatto che a le Ulhur la lingua affoga,

anzi ch’un sicofante resoconto!

Così ch’ Atal l’avviò di chiara foga

la volontà che ‘n testa si propaga

per lo scovar qual sito Gruhn l’alloga.

E preso a perlustrare quella plaga,

avendo in testa questa cosa sola:

dal passo passò a corsa, u’ la maga

che lo destò, fu noce de la cola,

cui foglia masticò con lo coeso

suo drappello, sanza tuffarla in gola.

Ma tutto a un tratto s’arrestò… noèso

ne l’ascoltar la mente che ragiona,

e non sentì quel serpeggiar proteso

d’un Mamba nero ch’al petto lo corona,

strignendolo con forza spaventosa,

sì morsa e morso vien che non condona!

Neun di suo’ compagni osò qual cosa

per scongiurar sì fesse fine atroce,

e tutti stieron come lito posa.

Lo busto suo saldo, parea la noce

del mongongo ch’avea in iscorta al cinto,

che la forza del mar traesse ‘n foce.

Quella stretta bestial lo tenne avvinto,

prèmito ‘l corpo tra le spire a l’angue,

lo quale la sua preda avea ormai vinto!

Al fin, stremato da lo sforzo, langue;

come polpa più sanz’ossa s’accasciò…

disciolto, svuotato e muto: esangue.

Così come l’avea preso lo lasciò…

ma né i’ né altri avria virtù dirvi

cosa fosse… quel che di poi l’insinuò

come spirto in bocca!… – Ch’a non ferirVi

o burlarmi di Voi, del Vostro ingegno

lo ‘ntenda! N’avrò i’ di molto a dirVi

se al continuar ‘traverso a questo Regno,

avrete fame e sete d’Avventura…

poi che di Voi vogl’io esserne Degno!

Nel riedere a Gruhn, fermo a l’intento

di trarre in salvo Ulah da li Zanj:

dirovvi del suo passo cauto e lento;

pronto a tutto per tòrre da le mani

la donna sua da li scaltri felli,

pria che l’orda al redir, li sforzi vani.

Or dunque ch’ a li ‘ndentro ai cupi avelli

ch’ancor la fòvea l’avea in letargo:

s’acquattò cheto con li altri fratelli.

Poscia la letta a l’atro auso e largo,

e lungi ‘l curro sì ché lo licéva:

la scorsa vi disciolse or fatto argo.

E a strozzi lai da un antro che lucéva,

distese avanti ‘l grosso grugno progno…

fin che fu certo udir Ulah ch’angéva.

Allor ché ratto, ipso facto agogno

dal revanscismo ch’a lo petto il rostro

del grifagno lo torturava in sogno…

che tal strazio saria sì ‘l mio e ‘l Vostro

si menò al loco in luce a quello regno,

sì ché ‘l feroce Ethan a lui fu mostro.

Nudo e rugoso com’è di scorza il legno,

con la sua Ulah avea di pretenzioso,

e Gruhn montò su l’ira anche lo sdegno.

Furente a lo scrutar quell’atto ontoso,

sentì lo sangue al cranio far di scale

sì come a la marea in moto ondoso.

Tant’é che rabbia al par di voglia sale,

di farsi ultor pei lutti e i patimenti,

e ‘l fiele a mestar sì ‘l pelago al sale.

E al viso progno digrignò li denti

come ‘l leon ch‘avverso a iena rugge

per rilevar la forza de’ potenti.

Ma ‘l tempo ch’ è tiranno lesto fugge,

così per Gruhn  fu l’ora de lo scontro,

ch’ormai la furia placa il corpo strugge.

Furtivo come belva a questi contro,

ch’ancor di Ulah si licéva abuso,

appresso a le sue spalle fé riscontro.

E ‘l braccio alzato in sù, col pugno chiuso

su quello cranio sferrò colpo tale

che ‘l naso a cozzar pietra fu camuso

al punto, da ridurlo primordiale

a quello suo ch’avea da dirsi nappa,

dal quale or fuga e sfiata in fora ‘l male.

Su grandi foglie a cuore de la lappa

giacea riverso Ethan privo d’itto,

che ‘l sangue suo la lingua par ch’allappa.

Stroncato da quel colpo monolitto,

lo bieco dittatore de li Zanj

fu definitivamente sconfitto.

Ma per far sì a non far li sforzi vani,

Gruhn dovea ritrarsi al far pugnace

pria che l’orda li sovvertisse i piani.

Spento Ethan, accesa era la brace

che ‘n pozza alimentata da la torba,

d’offrire ancora luce era capace.

E Ulah, edotto Gruhn perché l’assorba,

li diè la gabbia per menarlo seco

col suo fetor che sterco il muco ammorba.

Ma se lo passo suo dianzi cieco

l’avea sin qui guidato ben protetto;

la fuga in luce è preda a sguardo sbieco,

ch’anche il più sventato può farsi retto

se sol la fòvea tra li antri bui

ne percepisce ‘l lume a far difetto.

Allor, presi ‘n iscudo i pari sùi

per occultare de la fiamma i rai,

si strinse e’ a Ulah ed ella a lui.

Così ch’usciti sanza subire guai,

con far limbo al lìmine: urla d’aiuto

li allarmò, ch’ogne u’ allarmati lai

portati ‘n eco fuor da quello imbuto,

risonavan alti ‘n sù a la gola a l’uo’

di consegnarli a l’orda in tal tributo.

Troppo azzardo il risalire… s’insinuò

Gruhn con sua schiatta tra la roccia rima

a le falde del pendio, e lici attuò

lo sotterfugio che teneva in cima

al pensier suo per completar vendetta;

ch’anciso Ethan fé la mossa prima.

Ma qui dianzi sorse atra disdetta:

lo foco da la gabbia era scomparso,

ché la custodia d’Ulah fu negletta!

Puossi dir che svanì tal v’era apparso…

fulmineo come al conseguir del tuono

d’argenteo lampo il cielo venne arso.

Da ché piovoso, il tempo non fe’ dono,

ché usciti a lo scoperto ne la corsa

si spense ‘n gabbia quel ch’avea di buono.

Racchiusi ‘n quella schisi come l’orsa

al freddo di sue terre si fa tana,

li ultimi Ulhur, sfumata la risorsa

che l’acqua in scrosci rese tosto vana:

seguirono non visti la discesa

concitata de l’orda su la piana.

Necessità ‘l li ‘ndusse avaccio in scesa,

ché dianzi giunti al passo del pendìo

dove la stretta inizia la scoscesa;

contestualmente a quello suono uscìo

d’allarme, scorsero le due fasulle

guardie che a Gruhn di già pagaron fìo.

Si fenno incontro con le facce brulle

e lo passo onùsto le satrapesse

Zanj  co’ viri, fanciulli e fanciulle;

tutti ‘ncreduli a chiedersi chi avesse

ucciso Ethan e tratta la gabbia

de lo foco sanza ch’alcun vedesse.

Per ciò ché ciechi di furor e rabbia,

ad elli parve come esser colpiti

da lo scorpio che morde e poi si ‘nsabbia.

De le oscure feritoie i feriti

sensi de li Zanj si fenno bigia,

credendo quei li fossero sfuggiti.

Gruhn e li suoi, che l’un con l’altro pigia,

eran pronti a vender cara la pelle;

ché se scoperti, sorte era ben grigia.

Ma come il Sol che sgombra di procelle,

scacciando tristi nubi e terre in ombra:

tal si dileguò l’orda in su a le Stelle;

lasciando in giù la piana calma e sgombra,

eccetto d’altri due a far la scolta,

bloccando sì li Ulhur ché fuga ingombra.

Giunge però question che non risolta

debbavi dir d’Atal e del suo insieme,

che li lasciai in cima a selva folta.

L’orda s’avviò sino a le falde estreme

del promontorio che ‘nnanzi a la gorgia

s’ergeva celando il lavico seme.

Sì come ‘n dentro al ventre suo si forgia

lo magma che ribolle a l’alta crosta

sin quando a vomitar trabocca l’orgia:

salìa nel petto a l’orda sanza sosta

la frenesia d’elidere ’l nemico;

ex abrupto si fosse ricomposta

ad Atal, a lo punto ch’ab antico

precipitevolissimevolmente

cadde lava ricchendo il suol d’abbico.

Quivi di flora per natura assente

dove remota ingobba grigia bragia,

dovea trovarsi Atal forzatamente.

Ma la sua cerca già si fé randagia

al punto, ch’avanzare oppur far lece,

per versi opposti scelta era malvagia.

Di poi che ‘l ciel mutò l’azzurro in pece,

quelli li vide alzar le berze in lena,

scevri di gabbia dove luce vece.

Mestizia grande ottunse a quella pena:

non v’era da saperlo vivo o morto,

ne tracce da seguire su la rena.

Lunga la strada, e ‘l tempo in luce corto:

presero verso al punto di partenza,

col dubbio al passo lor se dritto o torto.

Arcano inesplicabile l’assenza

d’Atal, ch’avea seco sette fidi

armati e straripanti di potenza!

L’arretramento lesto a’ loro lidi

tra verdi fronde e arbusti di gaggìa,

fu come un vol d’uccelli ai propri nidi.

Colà traverso il  monte già muggìa

forte ‘l vento filtrando il bosco verde,

stordendo l’orda che se ne fuggìa

come si fugge quel che ‘l senno perde.

ASTUZIA E VENDETTA

Un rutilante cielo si dipinse

di lembi scuri, ed altri di vermiglio,

che ‘nfin la notte, il giorno in ombra vinse.

Le grandi foglie a cuore al bianco tiglio,

fenno pei Zanj, d’acqua la dispensa

che come madre porge ‘l seno al figlio.

Là dove la natura era più densa,

com’è fitto l’amor che ‘l cor suggella;

calò nel bosco elisio notte immensa.

Altronde si fuggì la fulva Stella,

calando ad Occidente lemme lemme,

per lucere da l’altra parte a quella.

Quivi, splendente Gemma ad altre gemme,

nel cielo s’assieparono a migliaia,

sì come in terra zampe in mosse flemme

de le predaci belve d’ogni raia,

nel profittar di prede al sorgo chine,

od altre in lama salde su la praia.

Ogne prencipio insegue il proprio fine

ne l’Universo apparso da caòsso,

come che ìl giorno inizia e trova fine.

E qui ch’io a dire finalmente posso

de le ragion che l’omo l’ha converso,

or che d’antico suolo il passo ha mosso…

Per fede, amore, od odio s’è disperso;

pregato, amato e anciso sanza posa,

sanza trovar di capo o coda il verso.

Ma nel suo albor del tempo dir non osa:

“Tra i mondi di possibile è il migliore!”,

poi che da lo suo verso è poca cosa.

Così che s’iniziò, dispense l’ore,

a interrogarsi per scovare il nesso

tra ciò che pensa e ciò che gli sta in cuore.

In prevalenza, l’esser sottomesso

da forze avverse d’ogne tipo e forma,

era l’allarme primo per se stesso.

Per ciò, de cognezione fé la norma:

sperimentar d’ogne qualcosa il tutto

per dare a sua semenza luce d’orma.

Ma del lavar l’un l’altro l’onte al lutto

per recta ratio con le proprie mani,

fu d’ogne malo il seme sanza frutto.

Branco di lupi pria che miti cani…

fu quello il primo scontro tra due genti

che ‘l gene ‘mpresso rese sforzi vani.

Sì nacque l’odio, figlio de’ lamenti,

or ché li corpi ‘nfossi ‘n terra d’arche,

al disceptatur reus li fé presenti.

E spesse fïate le fosse carche,

ei furo quei ch’ancora oggi enno,

ne lo filar lo stame come Parche.

pax lex, ma sol per dux il senno,

fu ciò ch’ei fello audax a proprio danno,

e lux e nox gerendum est si fenno.

Cos’è che portò l’omo a farsi scanno

del pari suo sanz’alcuna pieta,

se manco belve fra di lor lo fanno?

Preda e cattura come un’alma ‘ncheta

chi di fattezze o pelle va difforme,

recrudescendo al sorgo di sua meta.

Padre quel fu, di tutte le venture orme:

tra il ben e ‘l mal discerse lo divario,

scoprendo fosse l’un da l’altro enorme.

A terre di conquista, il millenario

seme de la gramigna fé germoglio

ne lo tracciar de l’area lo scenario,

che vide corse ‘n cerca d’erba voglio,

dove ‘l sopruso d’una a l’altra razza

oltre si pinse soglio dopo soglio.

E quell’antico suolo avea terrazza

per dar conforto a entrambe le due taglie;

m’appena l’una appar , l’altra l’ammazza!

Sì ebbe inizio oprar di rappresaglie,

che crebbe col pagar sempre più dazio

tra li succisi cor toppà in gramaglie.

Per sorte, l’intrusion ne l’altrui spazio

fu troppo manifesta ne l’ardire,

e per timor de l’un, l’altro fé strazio!

Di certo v’è, che nulla sapem dire,

se in altra forma avrebbe preso vizio

un mondo dato entrambi a costruire.

Affé mi pongo, d’infra ‘l caio e ‘l tizio,

se l’un mostrossi più de l’altro degno;

ma d’esto cozzo cedo a l’armestizio!

Di poi, chi al dissertar vuol far convegno,

ritenga giustamente, che ‘l suo corso

natura marca con profondo segno.

Così ch’appresso accede nel discorso

lor voce irrobustita di risalto,

tal sì che di question si sgombri ‘l morso.

Or che, lasciate rocce di basalto

con la speranza, ch’era poca cosa,

e col moral, che puossi dir non alto:

nel ponderar ch’a dir quel che non osa,

l’orda si romitò ne la sua grotta,

urlando ed imprecando in ogne posa.

E mentre a quei la bocca sfiata e sbotta,

dal suo rifugio Gruhn si dipartia,

procrastinando il tempo de la lotta.

Ulah lo guardò come rapìa,

ad ello indissolubilmente grata

d’averla salva a quella prigionia.

Ma in quella notte fredda, costellata

di bianchi e sfavillanti luccichii,

cruccio vital era la ritirata.

Lo risalir la china de’ pendii

era il solo scampar da quella chiusa,

dove li Zanj liti fui natii.

Però lassù, le prede ‘nsegue e abusa

lo più temibile de’ predatori,

che nel cacciar di notte l’occhi ausa.

Busto non monta di sua mole in fuori

al gir de l’om la selva in passo snello,

dov’anco han da temer possenti tori!

A questo intralcio, v’era poi di quello

de lo trovar ricetto per la notte,

per deprecar dal loco il fosco avello.

Così ch’al risalir con felpe piotte,

tra ‘l musco furo chiusi al buio in suso,

e al cupo summo onusto da le lotte,

un fuoco abbace fe’ oculato uso,

sfumando al grigio fummo la paura,

per quel lucor che li savéa d’auso.

In quella perigliosa selva oscura

fu insolva in silva valle Luna luca,

e ‘l pelo suso in salvo fé premura.

Di lungi l’alear che li conduca

al fora il bosco; vien ch’a quei l’aiuta

un baobab, e a rampicar l’induca.

L’estese branche furo ben venuta

sorte de la qual far parte; ché persa

certo l’avriano la pel lanuta!

Or ch’ogne Ulhur al giusto sonno versa,

lo solo Gruhn tra tutti fe’ l’eccetto,

con li occhi fissi su la volta tersa.

L’alba s’aprì, e si parò d’effetto,

armoniosamente veglia e queta

colà dov’è che sorge di precetto.

Col passo appresso a la chimera meta,

che quanto più lontani, più vicini,

baciar si fenno ai raggi del pianeta.

Poscia ‘ncappà un rizoma, ad esso chini

v’estrassero per cibo la sua scorza,

e giron tosto in cerca d’aquitrini.

Ond’elli a confidar de la lor forza,

a onta saver li altri più copiosi,

ferci calappio u’ salita sforza.

Quivi uscii da li antri cavernosi,

li Zanj ‘n fila come oche al passo

saliron l’erta stretta ardimentosi.

Nel rotolar li accolse un primo masso,

ed un secondo appresso vie più grosso

che li calcò e scaraventolli a basso.

E a quei ch’ancor d’intero avien qualch’osso,

Gruhn frantumollo, fin che voci vote

quetaron l’aere ch’urlio avea scosso.

E al far di conto de le mani e piote

la somma de le dita, beossi al calo

che constatò de li nemici ‘n dote.

Lieto d’aver a quelli reso il malo

col fino stratagemma concepito,

si fe’ mordace com’ è ‘l bianco squalo.

Da quelle grosse palle fu stupito

quando le vide come funghi al pruno,

cavandone lo meglio d’ogne lito.

Ben che sì d’altre ancor v’era raduno,

che d’ogne una in libbre era sessanta,

non vi premeva usarle più su alcuno.

Codirrossone vien che ‘n resta canta,

e giuso vien planando aquila nera

che una procavia in corsa a’ rostri agguanta.

Sì quando al canto che fe’ primavera,

s’oppose di converso il vol rapace,

si spense ne l’Ulhur la sicumera.

Fu come ‘l color freddo che non piace,

che non ti scalda al pulcro del bisogno

di quando amata bocca ai baci tace.

Augure forse, com’è a le volte ‘l sogno,

Gruhn lo velò: la man su l’occhi abbui,

di poi che scorse al mento largo e progno.

E preso a figurar tra quei, colui

ch’ancor saverlo vivo il cor l’adombra;

si volse a interrogar li amici sui:

“S’ogne di voi si vuol la mente sgombra,

non avrà pace qui, u’ Zanj biechi

su questa terra ci faranno ombra!

Poi che né ‘l cor né li occhi fan vi ciechi,

e ‘l sangue ancor profonde menti e polsi,

ditemi ‘l suol sul qual vuolsi vi rechi.”

Rispuose pronto il fido Koro: “Vuolsi

noi tutti vendicar l’inulte morti,

ché tutto siam men che può dirsi bolsi!

Lor son più numerosi, e noi più forti,

ma l’armi loro sono micidiali,

e noi avrem da stare bene accorti!

Ben conosciamo il capo di quei mali,

ma confidiam che ‘l pugno tuo lo schiacci,

ché tu da sol cento di quelli vali!”

“Dove vuolsi che ‘l nostro passo tracci?”

– ripetè Gruhn, commosso a quella fede. –

Koro: “U’ l’ombra de l’orda a noi s’allacci!”

E posto avanti a l’uno l’altro piede,

ripresero spedita la lor marcia

con Gruhn ch’avanti a tutti li precede.

Tra le question discusse fenno stralcia

di porre a rischio le provate vite

per insinuarsi tra la roccia squarcia.

D’esto parlonno, al pro di donne gite

tra le ‘nfami mani che fenno il ratto,

finalizzando che vi sien ben site.

Ché scevri d’ogne loco aver contratto,

l’avriano di peso s’a sé trasse,

così che fra di lor fu chiuso il patto.

Or giunti al punto dov’erba non grasse

radici, bacche, tuberi e germogli,

l’avieno anime lor lasciate lasse.

E punti giuso al petto a fitte dogli,

d’enfiarlo crebbe forte lo disio,

ché a carni arroste e grasse furo vogli.

Surse anche sete, e un poco calò il brio,

così, ch’a sacche vote le vesciche,

l’empiron risalendo a sud del rio.

Bagliavan rive u’ luminose miche

fur use a lo raschiar le barbe ‘ncolte,

le chiome lugni, e cose men ch’auliche.

Indi, al ruzzar de li orici a lor volte,

bramosi a quella succulenta sugna,

ferci a sprezzar movenze desenvolte;

di cotal guisa in terra l’ombra allugna,

e col suo manto ogne qual luce spiega,

fin anco quatta al fine suo vi giugna.

E mossi al retro dove ‘l turbo piega,

Gruhn fene far manovra in largo giro,

mostrando ancor lo ingegno di stratega.

Costì ch’avolli l’ippotraghi a tiro,

Koro flesse la poderosa spalla

scagliando la sagitta sul più viro.

E questa turbinò, flessùosa e snella,

altre sì più ch’a quella era diretta,

per tanto che curvò tal giusa stella.

La punta d’ossidiana fe’ saetta

che conficcossi tra le carni al fianco,

mentre lo branco si sfagliò in gran fretta.

Dacché d’una sol cosa venne a manco:

un loco certo a farli da riparo,

allor che ‘l nero sormontasse ‘l bianco.

L’ottimo pasto die’ savor amaro

per quello cruccio, e lo sconforto volse

a torre gaudio a quell’evento raro.

Vital li corpi, e menti spente e bolse,

che ‘n sé neun disvuol ma ch’elli scipa,

fin anco venne Gruhn che li rivolse:

“Irrito è star su la dolente ripa

costà di presso; i’ tra’ quai non deggio,

co’ nostri ‘n giuso sovra pira stipa!

Quinc’entro, chi si soffolge non veggio

com’ei si torrà d’ogne rattento rato,

che per cotanto n’aggia ve n’è peggio!

Che vegna fìata labbia, e i’ a e’ grato

se questa poggia su lo suo coraggio;

ché quel che sie’, da salda foggia è nato!”

Costì ch’avolli puro il suo messaggio,

ad uno ad uno furo interpellati.

Koro, il colosso, e anche ‘l più selvaggio,

disse: “Qui siam ove tu ci hai menati

tra ogne alea, traversando uadi,

e da le selve uscii più disperati

e scerpi, che fra tanti fummo, radi

siamo; ma li altri, caduti u’ enno,

avriano qui a dir che tu li guadi!

Col capo a ciondolar, d’assenso il cenno

ferci ciascuno, e neun di sbieco;

in amistà e sanza ubbia lo fenno.

E a far di nulla voce da lo speco,

ché ‘l fiato si fe’ corto gendo in scuffa;

con l’occhio torvo a lo nemico bieco,

e ‘l volto assorto come assorbe luffa,

a quell’anobio levossisi stanti,

coesi d’epitassia al fin di muffa.

Da l’ombre de l’acacia ormai distanti,

con l’aspro scherno d’i compagni arsi

in quello averno; volto al loro avanti

dove si volge ‘l Sole ad innalzarsi,

si volse in fiele ‘l pasto delibato…

cogitabondi e ‘nquieti sul da farsi.

Ma si cotal ch’elegge lo creato:

L’uom sen và la dove l’animal valli,

e questi ‘l vegetal segue beato,

sì pari esso al clima face i talli.

Sì che per Gruhn non v’era d’altro verso

che non di seguitar per quelle valli…

Tra il mondo: Ne lo suo mondo perso…

Col carco su le spalle – che lo schiaccia –

Col fiato al collo – d’un popolo avverso –

Col cor ingollo – per chi dalli caccia –

Col sudor e col brivido – che scende –

Giù – lungo l’ampia schiena – Lo minaccia.

“Crescerann’ ei col morso che li offende,

se ‘l cor le urenti fitte non rigetta!”,

flautò suasiva Ulah ch’e’ sorprende.

Colma d’amor, bastolle lesta letta

per cogliere ch’avea ‘l cor compunto,

enfio di colpa, pria ch’ancor vendetta.

Gruhn l’ascoltò sanza alcun disappunto,

a passo svelto tra l’aere greve,

fin tanto che, a un monte nero giunto…

Guardollo, che distavvi ad e’ di breve,

u’ propaggine attorno era divelta,

com’è oggidì gran parte de le pieve.

D’erbe ‘ncolte, – futuro gran di spelta

disseminava ‘nnanzi l’ampio spiazzo,

e strane molli pietre ‘n grande scelta.

Or che Koro le colse scoppiò in lazzo,

e ancor di più li altri quando Koro

per una ch’addentò lo fenno pazzo!

Ben che n’avesse forza al par d’un toro,

quando la pietra frantumossi al morso,

un fiato di stupor levossi ‘n coro.

Avvezzi a l’uso ormai da lungo corso,

d’ogne litolde che su l’altro cozza

per torre schegge a un lato e a lo suo dorso,

e costruirsi l’ascia in forma rozza:

si fe’ coeso l’uso che, per caso

portolli a levigar quell’arma bozza.

De la bontà d’impiego fu persuaso

l’Ulhur, anco ne lo polire ‘l legno,

ch’a la sua schiappa fe’ ‘l puntal protaso.

Per quanto però, postosi d’impegno

ne lo incrudire la sua punta al foco,

non v’er’ accostamento fosse degno

con quella ch’avea usato dianzi poco

Koro, che sanza metter troppo buzzo,

centrovvi l’orice quasi per gioco.

“Con questa lancia prenderò uno struzzo!”,

disse di poi a quel preciso lancio.

“Neun di noi s’è mai rempito il buzzo!”

Di poi d’aver chiosato in pari slancio,

colse l’aguzza picca che fe’ avanzo,

quando la pinse ne lo petto squarcio

d’uno di quei che stavvi a far di lanzo

al passo pruno de la loro ripa,

che cedé ‘nfilzato cotale manzo.

A quel puntal v’è nulla che lo scipa:

non vene usura, e d’ogne lato taglia,

più de la selce e de l’ardesia; u’ stipa

però, non v’era da saver, ché sfaglia

n’avrian ben fatto de le loro lame:

deboli schiappe ch’anche ‘l Sol le squaglia.

Ma quivi un arsenal non fu ciarpame:

dove stavvi rocce lucide e nere

ch’a lo raschiar di quelle surse stame

sì tagliente come n’ebbe vedere

mai pria da l’altre rocce, e diafano

come l’acqua ch’eran ausi a bere.

Quarzo, quarzite, vetro di vulcano,

mica, diaspro, calcedonio e cote:

una miniera in suso a l’altopiano!

Ve n’era da far piene mani vote,

ch’ad ogne uso tutte le combina

quell’uom ch’al fine le prendette ‘n dote.

Quell’era – pensò Gruhn – la gran fucina

de li Zanj, e si crucciò d’esto vasto

sito, per non averlo visto fina

che saria suto d’ideal contrasto

a tutta la sua torma, ne l’inganno

mortal ch’ancor lo grava orrendo basto.

Crebbe gravoso, fino a farsi affanno

spillarsi da quel sito al Sol esposto,

ché a lo pugnar scoverti n’avrian danno.

Se, com’ei crede, l’è nocivo il posto;

non v’era d’altro che d’uscirne lesto,

ma dove gir… s’esti n’avieno l’osto!?

Porpora vien a tramontar giù presto,

ché l’alta vetta già lambiva l’ostro

rotondo, e d’una làtebra foresto

Gruhn, volse a borea il capo, e quinci a ostro

riportollo in stallo, e immobile stette;

ritto in piè… alletto da quello mostro

poggio: sileno in terre maladette,

o forse amico che vuol esser visto…

giuso d’abisso de’ cieli… riflettè

Gruhn, col curro a scїvolar su scisto,

mentre la vetta già lo soggiogava,

come se tutto fosse già previsto…

Che che ne la sua testa li girava

per torlo da quel pozzo sanza fondo,

già che vi colse qual’alea gravava.

E da le falde mosso a gir nel tondo,

dove la morchia stoppa avea dimora,

creò di visitar di ‘n cima ‘l mondo.

Or che trovollo il punto, volse l’ora

di fare leva a le superne brezze;

guarnito in fede sì, ma qual l’ignora.

Colmo di dubbi ‘l cor, vote certezze;

ma di salir sentì ch’era proclive,

lassando ‘n giuso pene ed amarezze.

Lassù, purissim’ aure erano vive,

come se nullo all’uom pensier l’ostasse

ne l’illusion l’aver d’essenze prive.

De lo vulcan la gorgia, in quercio d’asse

l’astro fulvo l’ombrò in istoppa, e fiappa

luce al cavato speco il curro trasse.

Celle secrete, ascose d’ogne mappa

quelli pendii scoscesi a le cavate

sponde sanza bozzi dov’om s’aggrappa.

Un vapor bruno volse alte levate,

poco discosto, in senso de l’espero,

d’in dove Gruhn le berze avea già alzate.

A quel segnal, con ali di sparviero

la torma de li Zanj venne a l’orto,

sostandovi su l’orlo del sentiero.

Gruhn vi lanciò freccioso sguardo; corto

di fiato, per di quanto l’erta salse,

cogliendo ben che lo volevan morto!

E da la chiostra de’ denti si valse

d’appuntar ver quelli, riso in ischerno,

come si piccan birbe a le rivalse.

Quinci proteso ver il cupo averno,

lu’ istava con il dorso ad arco flesso

a quella bolgia vota de l’Etterno.

Sì forte e fiducioso di se stesso,

a li suoi si volvea come se gisse

retaggio d’ogne atto a quell’accesso.

E da lo giogo de l’abisso disse:

“Così colà dove ‘l ceruleo regno

apparvici che l’essenzial subisse,

talis quivi subisso regna ingegno!

Sin qui giugnemmo dentro a l’alte fosse,

e di condurvi ‘n giuso prendo impegno!

E quivi ci sovvien, tal quale fosse

quello che non mostra d’esser: Eliso

ascoso di nubi ‘n terre rosse!

Ma s’un con quel de l’altro squadra ‘l viso,

quantunque vuol che calar giù non gradi;

sàcciasi di qual guisa vuolsi ucciso!

Conforto al dolo vegna, e poi s’en vadi,

tal sì violenza plachi e poscia riedi,

fin che ‘l mortal sospiro il filo radi.

Giudice vien supremo, ritto in piedi

a no’ inanzi: combattenti bossi

fuor de l’arme rivolti, e inulto sedi!”

Tenea ‘l suo viso appo ai fitti fossi,

e fiso un poco a lor crinite chiome,

che ‘l turbo scompigliò or che levossi.

E fatta leva a quei: ch’anime ‘ndome

ancor recalcitravan su la soglia;

riprese a disquisir del ché e del come…

“Non è question che facere non voglia…

ma ricovrar sì vuol volvendo gli anni,

chi ci sospigne al fondo sanza doglia!”

“Come vuolsi che cali… a volo vanni?

Perché franar in questa terra arsiccia…

ch’avemo già d’alquanto nostri danni?”

Sì sbottò Tesk, con tono che capriccia,

ché lo cresceva sol l’onor del mento;

col pelo in suso che la man stropiccia.

V’era una volta de’ color d’argento,

e intero gruppo fene luce brace

che scintillò diritta al firmamento.

Quell’era il segno che sanciva pace,

e diè a Gruhn randello di comando

per torre lena e far come a lu’ piace.

D’esto curioso caso fe’ rimando

Gruhn, ad ogne qual sì sia questione,

ma v’era legge lor che dicea quando

se ne dovea prestar la situazione;

sì come venne adesso pei compagni

ch’a lui mancollo a sua reputazione.

Codesta legge volsero li magni

Ulhur, che tramandossi a beneficio

di dispute, e d’elision d’i lagni.

Tal sì di giovamento l’artificio,

ché non produsse di futile lite,

quantunque se n’addusse in sacrificio.

Tant’è che ‘l gruppo si fe’ monolite,

ed ogne fascio lassò fuora i nervi,

tal sì ‘l leon che ‘l dapi lo rie’ mite.

Or ben io vegno a dirvi li ‘rcocervi

eventi che significò la fiamma

ne lo schivar far palme come cervi.

Vita sen và, tra lo raggiar e ‘l dramma,

e quivi d’infra stiède; tal ch’arieggi

compaginar la morte al sen di mamma.

Bizzarra sovr’ognuna d’altre leggi,

sancì col suo alitar diritta a resta,

che Gruhn de la lor sorte ancor armeggi.

Per contro, se la vampa avesse testa

svolto a favor de l’afro, ne lo verso

ch’a l’altri ‘n cerchio stièrono a par sesta;

allora Gruhn, lo scettro l’avria perso,

e lo saria promosso dove giure

fiamma, l’erta si fusse di traverso

messa a qual che si trovasse lì pure

esso; immolato a l’uo’ d’un inatteso

refolo faùsto d’ogne premure.

Restovvi sola Ulah, sanza peso,

fuor da lo cerchio, come li ‘ngiugnea

la norma d’ i canuti crini; e acceso

lo foco, lo vigghiò dove volvea,

con ange, su l’occulta e malcerta

profezїa che cinse di nomèa

lo fiero Gruhn; e questi, ella era certa

ne l’affidar se stessa e ‘l lume ‘n gabbia,

ch’avria con equo senno scesa l’erta.

Ma digrignando i denti a spumar rabbia

Tesk, qual cui doglia li sùperi dei:

con mano ultrice, al foco nera sabbia

vi gettò di solla terra tra quei

compagni sbalorditi per lo spregio,

tra i quai fu Gruhn, che tosto recto, ond’ei

si volse ver’ da lo suo lato, regio

e furente come un gran maroso

per quel gesto d’abiura e sacrilegio.

E come che ‘l terren cui poggia: eroso

e ‘ncrosto da li sedimenti grigi;

si fe’ eminenza a l’atto pretestuoso…

Da l’alto de’ suoi crini lugni e bigi,

vide se stesso in Tesk, sanza lanugia,

sì ch’alma fulva il lato queto pigi.

Or ei è ‘ncerto… a lo castigo ‘ndugia…

Tesk è ne’ verd’anni, ma pur è reo,

e lito altronde ha non che lo rifugia…

Là onde Gruhn nomollo, e volar feo

queste parole: “Figlio, io non riò

cose lassate a offrirti, ma il leteo

sonno de la mente non sen va gìo;

esso non cassa, e tutti noi rifiede,

fin che Atal n’avrà scontato il fio.

Fors’ei dappiè con li altri al foco siede,

anzi che noi, su questa punta irti,

al soglio d’una cengia che precede

quest’antro imo qual casa di spirti!

Ma quivi, figlio mio – disse lene

col curro nver’ li tutti – riedo a dirti,

e vo’ ch’anche voi altri udiate bene:

Se ve n’è un che ‘l vaticinio morda,

che per sua ubbia addentro lo ritene;

è ben che voti ‘l fiato di sua lorda!

Se ho ben veder la tema che vi dolve:

v’attor’ minugia com’è attorta corda!”

Quei, avieno alito muto… “Non solve

porre indugio… ché da basso cerchiati,

né noi, né lor, il piè da qui rivolve!”

Per una volta ancor li avea chetati,

con ciance lene, sì, ma dure quelle,

ché quei avieno i polsi raggelati.

Cassa’ de colpa Tesk, pel nivea pelle,

come noumen ch’arrocca il cor che sagna,

s’oprò per acchetar spirto ribelle.

Solo Ulah ne compativa lagna,

quando li adulti puossi dir n’aonti,

tal face ‘l can che smonta da la cagna.

D’età più d’ei, che ‘l dir quanto non conti,

era de poco che li stava avante:

quel tanto occorre al can che cagna monti.

Ei voranvala con occhi de brigante,

ché a sua beltade l’uom de zelo, degna

perennemente ‘l tempo c’ha vacante.

Era ne l’età ch’ogne uom disegna

de forme nuove e spinte li suoi sogni,

e d’este tinte avea la coccia pregna.

Primero sovr’interi li bisogni,

ne lo desiar ch’avea tutt’or latente:

fame, terror e senno scordò d’ogni.

D’ella invaghito sì perdutamente,

ch’Ulah si fene vie più smaliziata

nel manovrar tal gioco confacente.

Avvezza ella ad essere viziata

per sua bellezza sanza alcun difetto,

si fe’ sentina tra quei om beata.

Ma se co’ li altri non rischiò il precetto,

col giovin Tesk sariasi posta in fallo:

pei suoi gagliardi modi, e ‘l bell’aspetto.

Tal sì fa quel che tace, seppur sallo,

Gruhn de’ loro sguardi non si fe’ onta,

col curro ver’ le bai d’oscura valle.

Stante su la cengia ch’ei sormonta,

stavvi ad udir quella irenica quete

e greve a lo contempo, ch’ebbe monta

sì de butto le mirifiche mete

che celavansi ‘n giuso a rocce fuse,

u’ acque sognatrici tabe Lete,

ch’antivedea con le gran ciglia chiuse.

NELLA BOCCA DEL VULCANO

Or surse sera… rossa d’ira arse

ombre rade; pari, sparsi rai morse;

su erosa rupe braci rase sparse.

Turbo sferzò rotando… spore porse,

rare; fuor ripa, ronco d’aura tersa

parve, che da l’oscuro lare corse.

Terra vibrò da lo profondo, e aspersa

terme ribollì ratta a l’orlo d’erta;

poi, risucchiata, prese corsa sversa,

borbogliando per la sua porta aperta,

ch’a lor sembrò d’un gracidar di rane,

mentre si ferci orecchi a tal scoperta.

Tremor non furo nera Parca; mane

e sera il cor l’attempra: s’apre l’Ade

e si perpetua, percote e fier le tane,

stralcia lo scirpo, l’aspra roccia trade

l’artiglio, e ‘l piè, ch’oltre ‘l terren ruina…

L’arbusto, tronco de la barba, cade.

Protervo ‘nver’ dove per contro, brina

versa eburnea la nordica parte;

quinci a le nubi frage non si china,

e ‘nreverente oltraggia per sua arte,

l’astro che sopra par tutto sorregge;

reietto a star si ‘nsempra in sua disparte.

Luciferando tetro fora legge,

cerca squarciar la Terra presa in sorte,

sì sfiata in fuor il morbo che lo regge.

Tra lo vapor che bruma da sua corte,

per gran folate l’aere respira,

ch’a quel profluvio par dolcir la morte!

Le nari ‘mbroglia, e frolla umbrando l’ira,

costì che la ragion, evanescente,

tra fratte nubi ormai dispersa gira.

Costà frenò la terra il suo movente,

e quei ch’avien fiatato la lor aura,

credettero che nulla era neénte.

Giù da la roccia di basalto pura,

tra il ruzzolar di sassi, u’ ‘l piè vaca,

si fer di braccia liane per sicura.

Poi beron l’acqua follemente baca,

e tutto, da minuto venne alto,

come fa il turbo furia d’aura placa.

Sparve repente con rovescio salto,

quel pozzo d’acqua, in doccia capovolto,

lasciando tondo e voto l’ampio spalto.

Diopside v’era d’ogne lato volto,

de’ color del bianco del verde e viola;

lucendo sì ‘l sol fosse lì sepolto.

Zefiro spirò sprazzi d’aria fola,

ch’elli suonò d’un armonioso canto,

tal sì di mille Muse in una sola.

Poi li rotò soto li piè quel manto,

che ‘n giuso de quell’imo, li discese

così di basso che non porei dir quanto.

Deh, se ved’io che l’affondar li ascese

in forma tal che ‘l ciel volgesse a terra,

come ‘l fra’ santo vide a gambe appese!…

Ne la sua man, la mano d’Ulah serra

Gruhn, là dove l’aere quiete tacque;

fagocitati al Sial de la Terra!

Gruhn sentìa quel suolo par cui nacque,

come vi fusse suto or quindi or quinci,

ch’intanto dichinava u’ dianzi l’acque.

Affé, lettor, nol ti so dir s’evinci

quel che d’un lato mostro e d’altro celo…

ma so che sete tai le volpi e linci.

Or che con li occhi d’offuscato velo,

non vide, unquanque si parvente lece,

quel che trasumanava sotto il cielo.

Giuso che giunti a l’elevata vece,

quasi com’uom cui troppa nuova smaga:

fissò la volta, sparsa in nera pece.

Stupor l’ingombrò il curro ver’ la plaga,

che di sua lustra stratocumulo raccoglie…

pencolò quasi… con la mente vaga.

Aruspice sott’incorporee spoglie,

drizzò parole alate ‘l lito rubro,

ch’ebbe splendor d’un Iperion germoglie.

Queste v’aerò: “Muovi al mio delubro

uom, e non ti curar di trarre volto

al fiato ch’odi, ché non è colubro!

Parlotti a matre d’ogne atto stolto

che ti vizia, portandoti sillèssi

di come ‘l mondo segua ad esser volto.

Non foti giure, ché fia mai lo fessi,

vie più che ‘ndarno dal ver si parte,

perché non tornà tal qual lo movessi,

chi opra per lo vero e non ha l’arte…

ma voterò di sillogismi, unquanco

Calliopè sali dove cala Marte.

In qualità di capo de lo branco,

quivi si ‘strada il lugno tirocinio,

ché un poco cresca quel che vienti manco.

Quivi si lotta per lo tuo dominio,

e averai de l’arme che lo gioca,

ch’or qui di voce foti vaticinio.

L’una ti sede ne l’area tua broca,

per quanto, ogne sua nota sona frolla

com’aver tanta sete ed acqua poca.

Or ben ch’accresceti cervice molla,

là dove nel terren s’accresce l’erba,

n’avrai diparte l’uso in ogne zolla.

È questa, l’altra dote tua, superba…

ch’amendue ‘l mondo si confà alligne

nel maturar la mente ancor acerba.

Quel dì, ti volli suso de larigne,

ma oggi, è d’uo’ che i’ a l’uom aspiro,

ch’or  l’evoluto uso andar si tigne.

E oggi bevi nel levar respiro,

per quel che volto, ciò non ti curavi,

vuolsi si puote infante fin che viro.

Questo ti gradi a stirpe de li savi,

or che favella fonda l’accezione

che non fé mai favore a li tui avi.

Di qui da poi ti fa sol eccezione,

per li due anni primi di tua vita,

e mai verrà da facere ‘nfrazione”.

“Ma tu chi sei!? E chi vuoi che io sia?”

“Se lo impegno de la tua mente chiamo,

è perché degnommi de l’opra mia;

per far che pianta butti da lo ramo

li adulti frutti che non spargon loglio,

e sieti iube nos, in terra Adamo.

Ero Sape ben pria d’ogne germoglio,

se pur che duolmi lo tuo senno inòpe,

ne averò per far che più non doglio.

Nol ti porò bear, ne lucer prope,

ché l’instillar tutto il disio puollo,

chi discerà di là oltre canope.

Così che al sommo pingerai lo collo,

dove già mai la mente non si sazia,

ché giù dappiè lo ver non va satollo.

Fuor dove fulge, l’Universo spazia,

che diémmi l’astro d’ogne altro prima,

sì che leon io son che pria si sazia.

Così ch’onor mi serba di sua stima,

ché adochi umane cose che lo vizia,

quell’intelletto vostro ch’ei sublima.

Stirpe non vuolsi di plebea o patrizia,

sì che nulla voglia di sé si fuia

teco, per quanto scarto ti nequizia.

S’apre la mente al cor che non s’abbuia,

e stella a stella splende di sua image,

di tal splendor che ‘l tuo veder s’inluia.

E d’este stelle che ‘n distanti plage

ti fan da guida quando è ‘l ciel sereno,

séguita quella che ne l’ostro brage.

Là onde vuolti dir, che non da meno,

acciò che men che ambagie non si paia;

che ‘l mal ti parta tal diparte ‘l seno.

Satrapo è, quei che l’ha in odio raia,

così che maltolletto non v’è posto

al summo lùteo u’ etterno l’aia.

Per lo tuo sforzo, al mondo non v’è costo

che valga più il pigiar de la cervice;

com’è che vin si cavrà sol da mosto.

E tanto men s’avvalga il cor vendice,

perché ‘l Vas d’elezione avrà peàna

tra d’una sola gente genetlice!

Se, contra grato, vox ti giugne vana,

o pittima prurigine t’affige,

potrai redir a drupe di lantana,

dov’è che ‘l popol bruno si dirige,

e a la tua gente boreal s’arroge

col patto ancor nel pugno ch’ora vige”.

Levossi Gruhn ver cui la Voce doge,

e colmo de lo spirto che ‘n sé lepe,

vi pronunciò queste parole coge:

“Qual’è la cosa salda e l’altra sepe

che vuo’ del conversar fatto soluto,

quand’è che morte ad altra morte repe!?”

Da l’ampie tempie ‘l volto fece acuto,

e con la glossa d’ogne lato sbuzza,

scisse l’aura da l’erma, nerboruto:

“Recammi morbo quella stirpe appuzza,

che tanto più l’esilio e più mi spuma;

tal l’orice tra i lupi riddi ruzza.

S’anco n’avrò favella in dolce piuma,

e a quelli tal, da fare che s’addua;

ne caverò lo sangue fin che gruma!”

“ I’ detti a quei, le verba tal la tua!”,

– tuonò la Voce da li liti robbi –

“ma qui l’accolsi contra grato sua,

mentre che volto da li spirti addobbi,

pativasi le pene a sua discordia;

sì ch’ei non è colui che io conobbi.

De la sua colpa fene palinodia,

e i’ non vo’ che l’un con l’altro stratta,

ché vene amorfo l’uom s’attrettal l’odia”.

Intanto che la Voce va pertratta,

e s’ange per esorcizzar lo scisma,

Gruhn pensò ad Atal in sì tal fatta.

E’ stava sovra mezzo da sua risma,

com’a la vespa se ne dista pecchia;

ché l’una il favo e l’altra il bugno accisma.

Di scilinguagnoli n’avea tal secchia,

che la sua mente si ‘nvolvea molce

a l’ubertà de l’una e l’altra orecchia.

Unqua saria più suto uom bobolce,

col capo tanto d’ogne motto carco,

ch’a quel noùmeno tutto ‘l soffolce.

Dianzi tracotante, fatto parco

si stoppò; qual’è quei ch’idee ricerna

di quando, al groppo sperso fruga un varco.

De l’indulgenza ch’ora lo governa,

non sa se ciò che sente vuole o aborre,

ché sì nescìa de lo voler che sterna.

La stimativa vien che lo soccorre,

da l’aere ch’ancor la voce adorna,

quando ch’un butto fola, e ‘l lume torre.

Oppresso da l’imago che li torna

de’ suoi compagni trucidati al tuffo,

capì ch’unqua l’avria fatta storna.

E tanto seguitò l’arioso buffo,

da non capir di dove vi s’indova

per far quel suon che se n’uscìa di buffo.

Tosto s’oprò a fricar di torcia nova,

ma per quanto ne succedesse face,

non ne cavò favilla da la cova.

L’aere doce scosse ‘l lito trace,

e a l’anticipar di Parmenide

tuonò de’ lemmi quello più sagace:

“ Sì come l’aura buffa il foco elide,

tu se’ qual’è quel che più non esiste,

ch’ai sensi abuso la ragion recide.

Quei che succederà piagnerà triste,

e oltre te ch’è qui, fin anco il sesto,

lacrimerà per tanto di sue viste.

Savio è quell’uom che sen va mesto,

e ogne suo grave lo corregge pulcro,

dov’è ch’a que’ converso fallo appesto.

Virtude ‘ncide lu’, dirozzo fulcro,

che ‘l crescerà qual come spunta osmunda,

fin d’elevar sì ‘n alto il mondo appulcro.

L’alma n’avrà d’ogne peccato munda,

come che Atal dianzi ne convenne

a l’inferir ch’al bene ‘l mal s’ottunda”.

A tai parole, l’onta si parvenne

a farlo in volto d’una luce dia;

com’è al tramonto il Sol sanza le penne.

E a contemplar s’ei è quel che non sia,

al Nume domandolli d’onde penda

tra lu’ e Atal l’essenza di sua via.

La Voce confidolli: “Di menda

vien che mi scorta dove ‘nsània espunto,

a precettar quei che mio suono intenda”.

Gruhn non mosse più neun appunto,

com’è ‘l figliuol ch’al padre non certàme

quando lo verbo è al summo de lo sunto.

Beavasi, e n’avea sempre fame,

ché già quel suon lo percotea d’inneschi

come che fosse punta sanza lame.

Ma l’urla orrende de l’inulti teschi,

li vien ch’a quella Musa lo rivolse,

così ch’a la sua mente ancor si ‘nveschi.

Cotanto meditò, fin che s’avvolse

Atal a quelle orbe cave, e scelse

confutare l’entrata che l’accolse.

Ogne movente buon così divelse,

lasciandolo a posare come varva,

per costipare il mondo che lo celse.

Savea non voler essere di larva,

né per se stesso ancor di men che nulla;

tal vien che a fratta nube ‘l Sol la sparva.

Quando a colui che l’Universo culla

si piacque di costui ch’avea pusillo

per inzeppar la sua cervice brulla:

gemma ialino ad inverar sigillo

suo pesò; u’ l’elitropio brilla

de’ colori che la terra sortillo.

E ‘l Nume l’inzigò questa postilla:

“Da l’aura luculenta che mi spunta,

scrϋta questo sangue che vi stilla

da questa gemma la vermiglia punta,

ch’adombra de l’empietoso rїvo

di quei ch’a grave colpa man s’è unta.

Com’è de l’om chè Re d’ogn’ ente vivo,

che la natura svela ed e’ sconosce

quand’anche a sé riflesso vien corrivo:

su l’acque ‘l volto specchia le sue angosce,

fin che le stesse, d’altro corpo asterse,

si frangon oltre come stelle flosce.

Così ch’io dissi a quei che si converse,

ch’ancor li dienni a seguitar sua pacchia

quando la mente lustra la man terse.

Costà compunto gisse d’alma bacchia,

ma d’esta gemma non s’avrà più tuorlo

sanza che sparva schiatta che la macchia!…

Ché come un piè maldestro smotta l’orlo

de l’abisso quando che l’altro insalda

a guisa che quel ciondo può riporlo;

ti frui benigna questa luce calda,

ché non l’avrà sostrato d’esto aprìco

per assemprar la vita che lo sfalda,

quell’uom ch’avrà deposto l’eutocìco

seme nel cagionar di caldo fiotto

verso di quei ch’e’ lo disvuol amico”.

Ritto sì d’orso, Gruhn respose al motto:

“Noi siam li soverchiati, elli li ‘nvitti,

ché stiamo sette di quei giti sotto;

così che spogli s’ancor ben che ritti,

per posta voce eterea che snuda

ci chiedi di polire li conflitti.

Ma come falda d’acqua frea trasuda,

sanza ch’avversa forza la ripugna,

e quanto men che l’osti ché non schiuda;

così non v’è ragion fuggir la pugna

per seguitar promesse d’alta gloria

che fassi di mia stirpe vita lugna.

Poi ché non spare al vento la memoria,

di cosa porò mai trasmetter vanto

s’anco mi fai lo princepe di storia?

Forse che puoi quetar l’animo affranto

che tepente surge fin che m’aonta,

col summo nerbo e non lèpido canto?”

E ‘l nume rimandolli ‘n voce pronta:

“Om che t’attorci come serpe al covo,

dov’è che mente acuta elude l’onta

d’esser e’ preda quando l’altri è novo;

quivi non venni a cingerti cavezza

per far di liscio laccio attorto grovo.

Ali ti ho dato per superna brezza,

dove di base al cranio, lo sfenòide

t’alligna il genio e la sregolatezza.

Quinci discerni a facerti alcalòide

d’un gran respiro a questo cielo aperto,

ch’ospita Giove e Marte ogne asteroide;

o se t’allieta navigar esperto

come Odisseo, figlio di Laerte,

ch’anche a l’avversi déi ne trarrà merto.

Ma per l’offese tue ferine ‘nferte

non ti varrà Peone di sua scienza,

ché ‘l suo cavar da pianta non rinverte

né l’una o l’altra fonte di sapienza;

ch’avrà genìa quant’è chiomato il calvo,

se la sua man rifiede di partenza

ver cui movollo storno; fatto salvo

ch’elli come veruno non vi moia

nel vellicare nocumento d’alvo”.

“Questo responso non m’assurge gioia,

ché, a mio veder, ver quei di voce molle

asperso: Tartaro foco a mutua ploia

l’avrebbe a consumar lo gesto folle,

compiuto con veemenza e tanta turba,

che straziami nel petto che ribolle”.

Così respose Gruhn con alma turba,

quando l’accento de la voce fronda

chinolli ‘l capo, e fello agno che curba:

“M’indulge la favella tua faconda,

se al propalar li tuoi epifonemi,

editio princeps è quel che li fonda.

Ma n’averai plorar, s’anco non temi

didimi vacui di tua prole oppilla,

financo vuoteran cadenza i tuoi ritmemi.

L’Etica vuolsi, di là dove brilla,

de le disposizion che tu non pavi:

bestialità non sagni le sue stilla”.

“Mentor celeste, o sommo de li savi”,

– rispuos’ e’ lui ch’ancor si condoleva –

“se i’ son quei non è; chi furo li avi

miei? Ché di cotanto onor m’eleva

la voce tua ‘nfusa ne la mia,

s’anco per tanto dà, di molto leva”.

Ed Elli a lui: “Per quest’inusta via

entrarono i tuoi avi, e fenno sacro

questo cratere su la loro scia.

Sì come oggidie a te consacro

l’ingegno e la favella, per cui prego

nel farti di mia voce simulacro;

dinnanzi a loro m’ersi d’alter ego,

nel dar figura a quello corpo prono:

postura eretta tal sì è a chi spiego.

S’ha elli fei lo verticale dono,

sì qual di te la summa parte leve,

puoll’io dir ch’ e’ son quel che non sono.

L’Essere è quei che mente non ha eve,

dove la qual, se scorre lo conosco;

quando che ‘nver’di sensi falla leve.

Lo strale ch’arse vivo lo tuo bosco

è come l’elitropio che refulge,

e ch’al sangue d’Atal l’elise ‘l tosco.

D’esta pietra, che da due lati ‘ndulge;

d’un solo lato rìstavi benigno,

ché ‘l quarzo verde ancor lucemi vulge.

Ei poi che smorta, non avrà patrigno

che la porà cavar da questa marna,

dove per mia volizia fatto arcigno:

farolla fera che la polpa scarna

dapo, che dal crater erutta bocca

de lo magma, silendo ogne alma starna.

Così, com’io son quel che niun lo tocca,

Saliman brotta fin ch’Ordalia effonde

strumento sì feral da cocca a cocca”.

E Gruhn a Elli: “Le focose onde

del tuo Divin flagello che le membra

de l’om lede, perseguono iraconde,

fanti sembrar com’è quei che non sembra…

come un nevato ciel fioccasse nero,

ché ‘l suo color Divino non rimembra”.

E il Nume sodisfece al suo sincero:

“ Il tono e li occhi non celansi piaggi,

se pur lo tuo giudizio fammi vero”.

Nel corrisponderli da’ lumi raggi,

lo Nume, da l’accosto disavezzo

ma implicato, chies’elli qual fin traggi.

E Gruhn rispuose: “S’ogne tuo mezzo

parvente lece, a far de l’om che ‘nfrange

lo tuo voler, per quel ch’e’ fallo avvezzo

ne l’esser quei qual’è che tu lo cange:

sarìa idest il re de la savana,

morire dapi ver’ preda che s’ange! “

E ‘l Nume a lui: “La gran ventura umana

che ‘l sol vagheggia con alterna orma,

far puote de lo savio cosa vana;

sì come a coppa tepe ciglio addorna

tra ‘l cumulo infinito di sorìte,

sanza cangiar de l’immutata forma”.

“I’ cheggioti ragion di tue sortite:

ché vonnomi dannata sinecùra?”

– propose fiero Gruhn ver’ l’aerolite. –

“Ohi, om che metempirica figura

precludeti ‘l comprendere l’oscuro

ch’alligneti a svelar con tanta cura…

S’i’ vagassi similemente puro

a discettar concetti ‘n modo vago:

l’alon non avria bianco, ma lo scuro!

E se da ‘nsusa bocca sputa drago

che ‘l suo litolde tutto lo dilava,

quando sua lingua stende ‘l rosso brago:

non è maladizion ch’entro ti cava,

come che fosse pieno il mio dimando;

ma è quel ch’al mondo cerchia l’acque a lava”.

E Gruhn domandolli: “Dimmi sì quando,

e come l’un a l’altra fansi cialda,

tal che la Luna, il Sol stesse baciando!”

“Bianca vien fredda, e l’astro rosso accalda

dove amendue fanti ugual fòmite,

che da l’opposte mete ‘l mondo salda”.

Sì ‘l Nume li ritornò le vomite

chiuose, di poi, a perdurar sinosssi

ver’ Gruhn, e a quelle sue genti ‘ndomite

“Uditemi”, gridò: “come rimossi

le man ch’aveano a terra i vostri maggi,

ch’eran sì tali, sol per quanto scossi

da quella positura, e dielli gaggi

per iniziar la Terra di lucore,

sì ho inaurato voi; poi che v’ho raggi

di ciò che mai neun n’avria splendore,

perché lo mondo, seco non lo cerne,

e sanza ingegno è vano ogne sudore!

Sì che, per tanto ‘n giuso, ora superne

van le vostre mete a darvi censo,

al suo sortillo om de le caverne.

E, s’acciò ché, tu, stolto vai propenso:

sarai cassato sanz’aver prebenda,

e tutto ciò che se’, sarà fuor senso”.

Non dimandò “Perché” a la reprimenda;

considerando l’esser profezia,

ch’a pochi lemmi ‘ntenditor l’intenda.

Avea la mente a farli d’abbazia,

e a l’ospitar lo sciempio e la poièsi,

dovea pesar saviezza e la pazzia.

E al bilanciar li opposti e carchi pesi,

non vide quale che stavvi di sùe,

fin che ‘l dubbiar cessò ed el compiési.

Allor che scosso a le difformi due,

ché a quella preferenza vide iniqua,

poi ch’elli fermo ai passi suo’ vi fue:

ne lo quetar la glossa biasma e liqua,

con li occhi di semìosi si fise

su quel segnacolo di pietra antiqua.

Poi che curato da cotanta assise,

sentendo l’affezion ch’ad ir lo sprona,

a sé prese li suo’, col suo permise.

Sì che, del Nume e’ si fe’ persona,

ché di sua voce li ultimi flailli,

giugnevali or ver’ la parte buona.

S’io volessi, lettor, altri lapilli

avrei, ché questa dolce carta alluma,

fin che, tenace, ‘ncendierei di squilli,

de lo Parnaso ber che la consuma

l’Elicona fonte che Gruhn assurge

al meretorio summo, or fatto piuma…

e ‘l mio disìo e tal, qual ch’e’ lo surge.

Or ben divisi come Efialte e Oto,

– col fato de li Arcadi che li mina:

quando ‘l demone Lace sperse al loto

le lor genti che li causò rovina –

Atal e Gruhn, da l’obliosa polla

abbeverati e mondi a lor sentina,

quali colombe d’ali a posta colla

per sorvolar l’inesplorati picchi,

posavali sul collo come ampolla

la testa, che di doni falli ricchi,

tal che non ebbe vaso di Pandora

dov’ogne mal fu incluso ai molli spicchi.

E mentre Atal s’appresta d’ora in ora

a reclutar sue genti da ogne domo

per porre ‘l passo a terre ch’ e’ ignora;

– pròdromo crucial de la stirpe d’omo –

s’accheta Gruhn ché ‘l verbo tienlo in stoppa,

com’è in ostaggio al ramo acerbo pomo.

Ma se ‘l far d’obbedienza ora l’intoppa,

– per chi la legge la conobbe ‘n pietra,

e non, su pietra – è duro porvi toppa.

Non fora ‘l sol la canopea silvestra

su quello mondo d’incomparabile

bellezza, sì come lo defenestra

Gruhn il fato suo, ineluttabile

oppositore de la sua vendetta

e, peggio: vittima inconfutabile.

Solo oramai, su terra a lui negletta

coi pochi fidi suo’, elli meditò,

con l’occhi assisi al cielo in dubbia letta.

Puntando poi l’indice in alto, additò

da Oriente a Occidente ‘l valicare

d’una luminosa scia, che alitò

su la splendente Luna al suo planare

rivoli sanguigni da lo suo manto;

tal’è ‘l punìceo Sol al tramontare.

E preso ad intonar lugubre canto;

come darviscio prese a gir nel tondo,

ne lo sfiatar continuo ‘l tristo ranto.

Poi si fermò… maladicendo ‘l mondo,

e maladisse Atal e le sue genti,

e ‘l Nume che lo fè meditabondo.

Quand’e’ dismise d’esternar lamenti

e ne scemò ‘l suo vorticar diuturno;

ai piè d ‘un grosso tek cadde in istenti.

Tacito, solo, e vuoto pel gran turno,

vi rannicchiò la testa a le ginocchia,

ché già lumava Luna ‘l ciel notturno.

Come fa que’ che ‘l mondo spento adocchia

quando le membra fanlo in parlasìa,

le palpebre calò a scovar pastocchia.

E vide da lo fondo di sua via,

Ulah su Ulah, sì molteplicata;

infino che l’Uluhr, su la sua scia,

di forza e moltitude sì rinata,

potesse ‘nvalidare quella posta

che ‘l Nume di sua strada avea segnata.

Com è quell’om che naufrago s’accosta

con ogne mezzo su la bianca riva

quand’anche ogn’ elemento lo discosta,

ma di speranza ancora non lo priva:

elli nel sogno cavalcò su l’onda

per far de lo suo gene fiamma viva.

Fata lo pose su l’ambita sponda,

che ‘l tempestoso mar or parve lago

da ogne sua pupilla ampia e feconda.

Sì ché, destato immensamente pago

a la vision che ‘l corso suo divina,

levitò speme ‘n tal virtù d’imago.

“O fresca brezza in fulgida mattina,

s’io son l’eliòne di leggi divine,

empiti e spira ver’ dove combina

la foce che diparte lo confine

de’ mie’ intendimenti, ove si piega

in cerchio poi, da lo prencipio a fine.

Mio è ‘l dominio, ch’ali sue dispiega

per pormi al summo di cotanto strazio,

quanto; da udir il popol mio che priega.

Strumento de dolor, de l’odio; sazio

non sei di me, che vommi timoroso

per allogar pacioso in questo spazio?

Chi sei? E donde vieni? E’ burrascoso,

o troppo angusto e solo, lo tuo mondo;

da torre a lo mio petto il suo riposo?”

E al contemplar lo verbo suo facondo

s’acchetò; sciente de l’arma ch’e’ suona,

se pur lungi ch’ancor coglierne ‘l fondo.

Ivi lo colse come nota stona

de l’indugiar a gir ver’ quella strada,

dov’ogne nerbo suo lo pulsa e sprona.

Quindi ch’unita a sé la sua masnada,

si ‘ncamminò ver’ la ritrosa pesta,

ché ‘l Sol di già, lem lemme, giù digrada…

come da se medesmo ogn’altra chiesta.

(Fine prima parte)

L’ULTIMO NEANDERTHAL
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