C’è un futuro ch’è domani
e un altro che verrà,
e sia il prossimo o il remoto
che riserba si vedrà.
Come futuri perduti
in millenni di storia,
tra sconfitte e la gloria
di quei giorni vissuti.
Cavalchiamo l’esistenza
su cavalli già sellati
fino a che, disarcionati,
capitomboliamo giù.
Siamo succubi a padroni
voraci di sostanza,
col cinismo che gli avanza
e nulla più.
Assetati di vittorie,
eroi di mediocrità,
esaltando vanti e glorie,
incapaci d’onestà.
Quanti ancora imperatori,
padri d’ogni civiltà,
sempre a caccia degli onori
per restar su in alto, là.
Sottomessi dal potere
stiamo in basso lì a guardare,
con la teoria del fare
di chi è schiavo dell’avere.
E finisce che restiamo
malati di sogni:
primari bisogni
di ciò che speriamo.
È un filo sottile
sul quale si danza
tra fiotti di bile
per la sudditanza.
Tra fato e ribellione
restiamo sospesi,
con la percezione
nei sensi rappresi.
La crisi economica
è un ponte di viltà;
una fisarmonica
che suono non ha.
Il futuro è la speme
di fede ultraterrena
in questo mondo che geme
confinato in quarantena.
Noi siamo gli artefici
del nostro destino
e non dei carnefici
per ruolo divino.
E non serve il coraggio
se la vita si fa dura;
no, non è un miraggio,
basta non aver paura.